Sono un’insegnante in un centro di istruzione per gli adulti. I miei studenti e le mie studentesse sono tuttə stranierə e una parte significativa di loro sono minori stranierə che sono arrivatə da solə in Italia dalla Tunisia, dall’Africa centrale, dal Bangladesh, dal Pakistan, e che vivono in comunità per minori stranieri non accompagnati sotto la tutela dei servizi sociali. 

Diversi miei studenti sono stati sbattuti fuori dalle comunità il giorno stesso del loro diciottesimo compleanno, senza una casa, senza un lavoro, e senza che si fossero concluse le lunghe procedure burocratiche per l’ottenimento del documento di identità, che gli permetterebbe di fare richiesta di conversione del permesso di soggiorno per minore età in permesso di soggiorno per ricerca di lavoro e quindi di lavorare legalmente. Uno dei miei studenti aveva trovato un’azienda pronta ad assumerlo appena una settimana prima del suo compleanno, ma ha dovuto rinunciare e andare a lavorare in nero nei campi del modenese perché non aveva ancora un documento di identità, e nonostante ciò – nonostante non fosse formalmente in condizione di firmare un contratto di lavoro – i servizi sociali non hanno ritenuto di prolungare la sua permanenza in comunità di un solo giorno. Ho scoperto che la possibilità di farlo esiste, addirittura fino a sei mesi dopo il diciottesimo compleanno, anche se fra le insegnanti e gli insegnanti della mia scuola c’era la convinzione che non fosse proprio possibile: e infatti questa possibilità non viene praticamente quasi mai accordata.  

Educatori, assistenti sociali, noi insegnanti facciamo delle gran prediche ai minorenni che non frequentano con assiduità le lezioni, ma poi se compiono 18 anni anche solo pochi giorni prima dell’esame finale, vengono mandati via dalle comunità. Di solito vanno a vivere in strada in altre città, o in case sovraffollate nella provincia agricola o industriale, insomma si ritrovano in situazioni in cui è impossibile portare a termine il percorso di istruzione che fino al giorno prima tutti noi adulti gli prospettavamo come importantissimo e fondamentale. 

Quale credibilità, quale valore ha il mio lavoro di insegnante in queste condizioni come possono questi adolescenti avere la benché minima fiducia nelle figure educative che lo stato italiano gli mette attorno, e nella società italiana in generale? Cosa possono mai fare per vivere, se non possono legalmente avere un lavoro regolare, e se siamo proprio noi a metterli nella condizione di aver bisogno di soldi per mantenersi, ma di non poter lavorare regolarmente? 

Dicono che non ci sono abbastanza posti nelle comunità per minori stranieri non accompagnati e quindi non si può accordare la possibilità di restare sei mesi in più in struttura a quelli che diventano maggiorenni, e quasi quasi anche noi insegnanti ci rassegniamo, come se fosse un limite divino. Ma i posti non ci sono perché non vengono stanziati fondi sufficienti (il decreto Cutro ha addirittura sancito la possibilità di collocare degli adolescenti in strutture per adulti, una cosa che va contro tutte le convenzioni internazionali a protezione dei minori). Però poi i soldi per la polizia, le carceri, i processi, i trattamenti psichiatrici, cioè per tutto ciò a cui probabilmente può andare incontro una persona così giovane che attraversa un’esperienza del genere, quelli lì si trovano sempre. 

Cosa c’entra tutto questo con la comunità LGBTQIA+ bianca? 

C’entra perché quando ci viene voglia di parlare dell’insicurezza delle strade, del fatto che abbiamo paura a tornare a casa da solə di notte o delle aggressioni o degli insulti subiti in strada, dovremmo tenere a mente queste cose (e anche tante altre); dovremmo tenere presente ad esempio che il sistema di gestione (perché non la chiamerei accoglienza) dei migranti e in particolare dei minorenni migranti in Italia è una macchina che di fatto incentiva concretamente la microcriminalità. Mi piacerebbe che la mia comunità si mostrasse un po’ più capace di andare oltre la mera denuncia, il semplice racconto di ciò di cui siamo vittime, l’esposizione delle nostre ferite. Possiamo farcela: riconoscerci la legittimità e l’urgenza di analizzare i meccanismi complessi delle ingiustizie del mondo in cui viviamo, e di portare delle idee su come andrebbe cambiato.

Per raccontare la violenza di cui si è state vittime ci vuole coraggio; ma per evitare che la nostra denuncia vada solo ad aumentare il clima di paura, e che i politici di destra e dell’ala securitaria del centro-sinistra ci facciano poi quello che vogliono, ci vuole impegno e intelligenza collettiva. E anche la capacità umana di empatizzare, di entrare in relazione e di ascoltare le storie e i bisogni di altri gruppi di persone oppresse, anche quando sembrano così diversi da te e non condividono la tua identità, anche quando magari sono quelli che ti hanno sempre descritto come i tuoi nemici, l’incarnazione dell’omofobia per eccellenza, i giovani maschi mussulmani. 

P.S. No, non ho mai patito omofobia nella mia scuola, né nelle altre in cui ho lavorato: mai dagli studenti, e mai dagli studenti stranieri. Però mi capita continuamente che altre persone LGBTQIA+ diano per scontato che debba subire un sacco di omofobia perché lavoro con gli stranieri. 

P.P.S. Gli educatori e le educatrici che lavorano nelle comunità per minori stranieri non accompagnati sono tuttu in burn out, e molto spesso sono persone queer, perché pare che siamo più brave a lavorare nell’educazione o forse perchè più facile sfruttarci visto che abbiamo meno opportunità degli etero, o tutte e due le cose. A Bologna stanno anche cercando di portare avanti una protesta. Sosteniamoli.

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