Il Pride è uno dei momenti più attesi della comunità LGBTQIA+. Quest’anno milioni di persone hanno manifestato il proprio orgoglio, invadendo le vie di più di 50 città italiane. Mai così tante manifestazioni per celebrare l’orgoglio del mondo queer. Peccato che se il tuo corpo o la tua mente non funzionano come ci si aspetta, secondo la norma, come si dà per scontato che succeda, tutto questo per te sarà più difficile.
Le persone disabili sono fra le più escluse ed emarginate dalla società, dai servizi, dalle iniziative politiche e ludiche a causa di una diffusa difficoltà a pensarle come cittadinə attivə, e purtroppo la comunità LGBTQ+ non è da meno. In questo modo persone disabili e neurodivergenti presenti nella comunità non vedono le loro esigenze e le loro tematiche prese in considerazione da chi ci si aspetta dovrebbe farle sentire parte di essa. Quale spazio hanno le persone disabili LGBTQ+ all’interno delle manifestazioni? Possono effettivamente partecipare? Qual è il livello di accessibilità del Pride e delle iniziative ad essi collegate? In pratica: quale spazio ha la disabilità nelle iniziative di rivendicazione dell’orgoglio della comunità?
Belle domande. Il fatto è: come rispondere? La mia formazione in data visualization e la mia ossessione per la ricerca dati mi sono venute in soccorso. Si sono trasformate nel mio scettro lunare ed eccomi qua: una paladina della giustizia pronta a punirti nel nome dei dati. Quale miglior modo di spiegare un problema se non dimostrarlo?
Mi sono avventurato nel meraviglioso mondo dei Google form (sempre sia lodato) e ho inviato due sondaggi: uno ai partecipanti e uno agli enti organizzatori che compaiono su ondapride.it. L’obiettivo: fare una mappatura del livello di inclusione della disabilità nei pride italiani. Un giro di mail, qualche condivisione sui social e il gioco è fatto. Salvo il dover stare alle calcagna degli enti organizzatori più indisciplinati. Hanno risposto in 42 su circa 50 e ho ricevuto 161 risposte da partecipanti disabili e neurodivergenti. Ho indagato il livello di accessibilità in diversi momenti della manifestazione, nella comunicazione e il livello di inclusione della disabilità negli interventi e nelle tematiche nelle iniziative correlate al pride.
Ne sono usciti un sacco di indicazioni e spunti che spero possano essere uno sprone per lә organizzatorә dei prossimi pride e per tutto l’associazionismo LGBTQ+ italiano.
Grazie ai risultati, è molto chiaro capire dove serve lavorare. Per le disabilità fisico-motorie, in alcuni casi non si è ancora raggiunta una totale accessibilità degli spazi, ed evidentemente si fa poca attenzione alla presenza di servizi igienici praticabili. Solo un organizzatore ha pensato a un numero telefonico dedicato da utilizzare durante il corteo e la manifestazione per chiedere assistenza. Negli altri casi, per chi ne avesse bisogno, potrebbe essere molto difficile contattare direttamente il servizio d’ordine per chiedere un aiuto (quando previsto). Sembra esserci una bassissima attenzione per le disabilità invisibili, come per chi ha malattie e dolori cronici e limitate disponibilità energetiche, e quindi si stanca facilmente o non può permettersi percorsi troppo lunghi. O per chi rischia un’iperstimolazione sensoriale e chi soffre d’ansia sociale e prova disagio o trova totalmente inaccessibile i luoghi con schiamazzi, assembramenti e tanti stimoli sensoriali.
Tante persone che spesso si vedono costrette a rinunciare non hanno la possibilità di partecipare nemmeno da casa, visto lo scarsissimo numero di dirette o registrazione dei contenuti (in soli 6 casi: sembra già che ci siamo dimenticati di cosa voglia dire non poter uscire di casa. E infine sicuramente occorre fare grande attenzione nella comunicazione dell’accessibilità e di comunicare sui social in maniera accessibile. Pochissimi hanno siti web con una sezione apposita dedicata ai servizi di accessibilità, solo 4. Solo 1 su 4 li comunica via social, e spesso lo fa male. Nella maggior parte dei casi non compare nessuna traccia di servizi di accessibilità, probabilmente perché non previsti.
La maggior parte dellə partecipanti tra l’altro è statə a più di un pride, il che significa sottoporsi a più disagi pur di partecipare a questo genere di manifestazioni. Questo dovrebbe bastare per farci intuire quanto le persone disabili, parte integrante del mondo queer, trovino generalmente ostacoli per partecipare a una vita associativa o comunitaria come chiunque altrə e quanto serva ancora impegnarsi per includerle nelle abituali attività e iniziative e permettere loro un’esperienza dignitosa e soddisfacente come chiunque altrə. Così come di sentirsi rappresentate, cosa che non avviene a buona parte dellә partecipanti.
Visto che non esiste nessuna organizzazione verticale degli eventi, e che difficilmente nascerà un coordinamento collettivo nazionale, la speranza è che una linea guida da seguire insieme a una raccolta di testimonianze possa spingere lә organizzatorә a un miglioramento efficace, rapido e repentino, magari grazie alla collaborazione con le realtà virtuose che hanno più esperienza. Suonerà retorico, ma serve fare rete, condividere soluzioni. Ma prima di tutto serve prendere consapevolezza. Sapere che se non vengono adottate le giuste misure di inclusione, ci sono categorie di persone – già fra le più escluse e isolate – che rischiano di vivere un’esperienza faticosa e frustrante. Quando riescono a viverla, perché spesso si vedono costrette a rinunciare. Non a causa delle loro limitazioni, ma di un contesto che non le prevede.Serve rendersi conto che ci sono esperienze che semplicemente non siamo mai statә abituatә a prendere in considerazione, complice una società abilista escludente nella quale siamo immersә e di cui non ci rendiamo conto.
SondaPride serve un po’ a entrambe le cose: avanzare richieste e far prendere consapevolezza. Già con la diffusione del sondaggio infatti ho visto dei miglioramenti attuati per tempo da vari organizzatori, e questo non può che rendermi felice. Senza prendermi troppi meriti, ma uno stimolo già è arrivato.
Spero questo lavoro possa palesare l’importanza di mettere in atto un’inclusione necessaria, spesso ignorata e data per scontato, un tipo di esperienza che la comunità LGBTQIA+ conosce benissimo. Quella di essere data per scontata, dico. Confido che la mia ricerca possa fungere da sprone per lavorare sull’accessibilità dei pride dal principio, fin già dalle fasi di progettazione, così da rendere il processo stesso accessibile per le persone disabili e neurodivergenti stesse, che potrebbero e vorrebbero partecipare alle varie fasi di briefing ma che spesso trovano difficile, frustrante e deleterio riuscire ad adattarsi alle modalità e ai criteri tipici di abilità e capacità. Più testimonianze infatti provengono da persone che hanno collaborato nell’organizzazione dei pride, che affermano che spesso l’accessibilità venga delegata a loro.
Non si pretende che eventi organizzati da piccole realtà possano avere l’intera gamma di interventi possibili, quelli più onerosi, ma è altrettanto vero che l’accessibilità è un modus operandi, e non una serie di accorgimenti a cui trovare soluzione all’ultimo. Se rispondere alle esigenze di accessibilità è tanto complicato è semplicemente perché non è nella nostra cultura pensare in maniera accessibile. Non siamo abituatә a farlo. Così come non siamo abituatә a pensare alla presenza di persone disabili e neurodivergenti. Per questo è fondamentale iniziare a pensare da subito, in partenza, a eventi pensati per chiunque. E non mi riferisco solo ai pride, ma alle iniziative dell’associazionismo in generale. Per chi può avere difficoltà a partecipare a causa di un contesto strutturato senza tenere a mente le esigenze di tuttə, ma anche per chi non può partecipare fisicamente. E in questo caso non servono risorse esagerate, ma la volontà politica di includere chiunque.
Si consiglia di invitare e coinvolgere fin da subito associazioni di settore che possono essere alleatә preziosә, ma senza delegare esclusivamente l’accessibilità alle persone disabili.
Adesso, grazie a questa mappatura, riconoscere il problema è molto più facile. E soprattutto, sapere cosa può provocare la mancanza di accessibilità, visualizzarlo, lo rende più comprensibile. Vedere le proprie dichiarazioni a fianco di quelle dellә altrә organizzatorә, confermate oppure no da quelle dellә partecipanti, spero provochi un monito di responsabilità. Sapere che c’è chi indagherà la bontà del mio operato, che se ne parlerà in pubblico, che sarà reso noto e sarà valutato, sono sicuro che cambia la mia responsabilità. Se non otteniamo il nostro obiettivo con uno slancio di coscienza grazie all’evidenza dei dati, magari lo faremo con la pressione della pubblica sentenza.
Quello dei pride è naturalmente un esempio simbolico di come sia necessario pensare l’intero associazionismo in chiave intersezionale e accessibile. Perché è bene ripeterlo: non esiste intersezionalità senza accessibilità. Abbiamo bisogno di accoglienza, abbiamo bisogno di interesse. Abbiamo bisogno di safe places.
Tutti i risultati della ricerca e il report finale dettagliato su questo sito.
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