Avrebbe potuto dare e fare molto di più, eppure la vita e l’arte di Elfriede Lohse-Wächtler furono prematuramente stroncate dalle indicibili azioni del nazismo. Il corpus delle sue opere, infatti, benché depauperato di molti pezzi, al tempo considerati arte degenerata, mostra qual era la sua concezione di rappresentazione dell’immagine femminile, sul ruolo dell’artista donna nella società dell’epoca e dell’introduzione pionieristica, in ambito visuale, di un discorso propriamente femminista.
Nata a Dresda nel 1899, dopo essersi formata dapprima all’Accademia d’Arte e quindi alla Scuola d’Arti Applicate della città, Elfriede entrò nella cerchia di alcuni degli artisti più famosi dell’epoca, tra cui Otto Dix, Conrad Felixmüller e Otto Griebel, che nel frattempo avevano fondato la Dresdner Sezession. Precocemente affamata di libertà e indipendenza, abbandonò la casa dei genitori borghesi, tagliò i capelli alla Bubikopf (lett. «testa di ragazzo»), iniziò a indossare abiti maschili e realizzò, per autofinanziarsi, piccole opere di grafica applicata, perlopiù batik e litografie.
Nei primi anni Venti conobbe Kurt Lohse, artista e attore bohémien, che sposò e col quale si trasferì ad Amburgo. Qui Elfriede ebbe modo di ammirare una delle città più cosmopolite della Germania, rimanendo particolarmente affascinata dal malfamato quartiere di St. Pauli, nel quale maturò una fondativa predilezione per i soggetti delle sue future opere: le donne marginalizzate dalla società. A partire dal 1927 divenne membro attivo del GEDOK, un collettivo di sole artiste guidato dalla mecenate femminista Ida Dehmel attraverso il quale Elfriede si fece notare anche al di fuori del contesto amburghese, esponendo in collettive della Neue Sachlichkeit in tutta la Germania.
Ferita dagli atteggiamenti del marito, che nel frattempo ebbe tre figli con un’altra donna, Elfriede se ne allontanò. Dopo questo primo trauma, la sua salute mentale cominciò a vacillare fino a quando, nel 1929, venne ricoverata nell’ospedale psichiatrico di Klein-Friedrichsberg di Amburgo. La sua arte, tuttavia, non ne fu ostacolata: è infatti di questo periodo la serie delle «teste di Friedrichsberg», ritratti di donne ricoverate nell’istituto, assieme a suoi diversi autoritratti, opere che le valsero l’attenzione della critica che la elogiò per il suo tratto moderno, crudo, squisitamente espressionista, tanto da paragonarla addirittura all’arte di Georg Grosz.
Una volta dimessa da Friedrichsberg Elfriede si dedicò incessantemente alla pittura, ritrovando quei soggetti femminili marginalizzati che era sempre stata desiderosa di rappresentare. È di questo periodo – forse il più felice e prolifico della sua breve esistenza – Lissy, un ritratto ad acquerello. Già a partire da quest’opera si può osservare come Elfriede seppe trattare con autonomia e originalità il tema femminile, operando un netto scarto rispetto alle rappresentazioni operate dai colleghi maschi negli stessi anni. In Otto Dix, ad esempio, la volontà deformante e il gusto per l’orrido alle prese col tema della prostituzione prendono il sopravvento, nel segno di una spietata oggettività pittorica che richiama la grande arte tedesca del passato. Nell’opera di Elfriede, invece, si osserva un certo rifiuto per gli stereotipi visivi della donna e della prostituta e, per controparte, un’enfasi sull’individualità del soggetto rappresentato. Nel caso di Lissy, non vi è traccia della sessualità aggressiva e costruita, e nemmeno della sua ostentazione in legame con la prostituzione. La gestualità e la postura della donna sono infatti indici di un’identità piena e consapevole, un atteggiamento di rivalsa femminista nei confronti del mondo circostante, maschilista e patriarcale. Lissy gioca alla pari con lo sguardo del potenziale osservatore: tra loro non vi sono rapporti di dominazione, né di subordinazione. È un confronto schietto, diretto e oggettivo.
La stessa genuinità dello sguardo si ritrova anche nei numerosi autoritratti realizzati nel corso degli anni, che segnano anche il progressivo peggioramento della condizione psichica di Elfriede. Tornata infatti a Dresda per volontà del padre, dopo un ulteriore crollo fu fatta ricoverare da questi all’istituto psichiatrico Arnsdorf, dove le viene riconosciuta una diagnosi di schizofrenia nel 1932. Ancora fiduciosa verso il futuro, continuò a dipingere e a chiedere al padre di poter essere dimessa, ma il suo destino di lì a poco fu tragicamente segnato. Nel 1935, infatti, come consentito dalla «Legge sulla prevenzione della nascita di persone affette da malattie ereditarie» emanata due anni prima, Elfriede fu sottoposta alla sterilizzazione coatta. Ulteriormente umiliata e offesa come donna ed essere umano, smise di dipingere mentre veniva abbandonata a sé stessa, malnutrita e sofferente.
Negli anni successivi arrivarono le due condanne definitive, una per l’arte e una per la vita della stessa Elfriede. Nel 1937 diverse sue opere furono distrutte, mentre alcune furono esposte alla mostra d’Arte Degenerata di Monaco di Baviera. Nel 1940 fu trasferita presso la clinica della morte di Pirna-Sonnenstein, dove il nazismo avviò il progetto Aktion T4 per tutte le «vite indegne di essere vissute». Qui Elfriede, insieme ad altre venti donne, fu condotta alla camera a gas il 31 luglio. Le pochissime opere abbozzate ad Arnsdorf vennero distrutte. Rimane solo una sua testimonianza scritta poco prima della tragedia:
«Malgrado tutto quello attraverso cui sono passata sono abbastanza stupida da credere che la gente buona esista ancora.»
In copertina: Autoritratto (1931)
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