Avvertenza: all’interno del testo troverete termini dispregiativi e discriminatori come “selvaggio”, “vivente allo stato di natura”, “non-umano”, “Altrə”, “fenomeni da baraccone”, “freak”, o inesatti come “villaggi”, provenienti da articoli e testi consultati. Per agevolare la lettura non saranno virgolettati, ma sono da considerarsi sempre come se lo fossero.
Troverete la parola umani tra virgolette ogni qualvolta questa si riferisca agli zoo, al fine di evidenziare come, attraverso la distinzione linguistica fra zoo e “zoo umani”, si ricrei quella discriminazione che rappresenta l’umanità superiore a tutte le altre specie, rimandando l’idea che solamente gli zoo umani fossero un caso di violenza da condannare, e come questa rappresentazione influenzi anche le discriminazioni interne alla specie umana.
«Lo zoo umano è sempre pronto a riaprire i battenti, cambiando solo scenografia e giustificazioni».
(Viviano Domenici, Uomini nelle gabbie)
Gli zoo “umani”, per moltə residuato di un tempo passato, hanno una storia attualissima ancora oggi. Ne troviamo alcuni esempi in anni recenti: l’esposizione di un villaggio congolese alla Fiera Universale di Bruxelles del 1958; la ricostruzione di un villaggio della Costa d’Avorio, all’interno di un “safari africano”, creato vicino Nantes, in Francia, nel 1994; il Festival della musica panafricana in Congo, nel 2007, dove venti artistə pigmeə (10 donne, 9 uomini e un bambino di tre mesi) furono ospitatə in uno zoo a Brazzaville. Non fatevi ingannare dal verbo ospitare, chiedetevi piuttosto: perché solamente lə artistə pigmeə alloggiarono in una tenda (che richiamava il tendone di un circo) allestita «appositamente per loro», mentre lə altrə artistə di altre etnie, congolesi e non, erano in albergo?
Una possibile risposta la fornisce sempre Viviano Domenici: gli zoo “umani” si sono adattati cambiando «scenografia e giustificazioni», evolvendosi in quello che viene definito turismo etnico, safari umani, o nel fenomeno del poorism (tour della povertà).
Il turismo etnico vende spettacoli allestiti per lə visitatorə all’interno di spazi intesi come villaggi ricostruiti ad hoc – come avveniva nelle Esposizioni Universali che affronteremo più avanti -, dove persone appartenenti a tribù autoctone sono obbligate da multinazionali alberghiere a lavorare inscenando quella che dovrebbe essere la quotidianità della loro vita. Sono gli stessi governi locali, per interessi economici e politici, a espropriare illegalmente le loro terre di origine per trasformarle in parchi, riserve naturali e mete turistiche.
Tutto questo vi stupisce? Forse vi meraviglierà meno collegarvi lo sfruttamento delle altre specie animali, normalizzato fin da quando una persona nasce: circhi, zoo, acquari in cui rinchiudiamo milioni di altre specie con la scusa della loro conservazione, della ricerca scientifica o semplicemente per divertire chi osserva.
Poiché l’essere umano è una delle specie animali presenti sulla terra, parlare di zoo “umani” potrebbe risultare quindi una ridondanza se prescindiamo dalla storicizzazione e dall’analisi del dualismo umano/animale necessario alla creazione delle categorie Noi e Altro, dove con Altro viene inteso qualunque individuo – sia essə umanə o di altre specie – identificatə come selvaggiə, vivente allo stato di natura, non-umanə, il cui corpo può essere sfruttato, oppresso, mercificato e consumato, sia metaforicamente che letteralmente.
Tanto quanto le altre tipologie di zoo, anche gli zoo “umani” si fondano sull’idea di oppressione e violenza, sulla totale oggettivazione dell’Altrə, reso oggetto di studio e intrattenimento. Un corpo privato della sua agentività (ndr. ovvero la capacità dell’essere vivente di agire attivamente e in maniera trasformativa, nel e sul contesto in cui è inserito), sul quale si pongono le basi per ogni discriminazione.
Antesignani degli zoo “umani” furono i freak show, spettacoli in voga in America ed Europa a partire dall’Ottocento fino alla prima metà del Novecento. Durante questi spettacoli si esponeva un’umanità composta da persone con caratteristiche all’epoca considerate insolite per i canoni occidentali, legate per esempio alla statura, al colore della pelle, a rare malformazioni fisiche e per questo definite fenomeni da baraccone (freak). La morbosità che caratterizzava lo sguardo dell’osservatorə occidentale rafforzava l’idea di una presunta superiorità legata alle differenze fisiche che poteva riscontrare fra sé e l’Altrə.
Il Ringling Brothers Circus (Circo Barnum), nato ufficialmente nel 1919 dalla fusione dei circhi Ringling Bros. e Barnum e Bailey, fu uno dei più famosi a offrire questo tipo di spettacoli fra America e Europa.
La nascita degli zoo “umani” può essere ricondotta al mercante tedesco Carl Hagenbeck, tra il 1875 e il 1878: egli elaborò un display misto, composto tanto da animali umani quanto da animali di altre specie. Ebbe un enorme successo, richiamando un pubblico numeroso attratto dall’idea di osservare individuə provenienti dalle colonie di Gran Bretagna, Francia, Spagna, Italia, Belgio. Le persone esposte facevano parte di varie etnie e spesso venivano rapite dai mercanti direttamente nelle colonie.
Hagenbeck fu l’unico a creare contratti d’ingaggio, principalmente per aggirare le polemiche da parte di chi si opponeva a tale sfruttamento. Tuttavia ciò non deve far pensare a un regolare contratto, tutt’altro: la disparità di potere fra le due parti era un’altra forma di costrizione alla quale le persone sfruttate non potevano sottrarsi.
A questo, si sommavano la scarsità di cibo, le condizioni igieniche pessime, la libertà limitata, la costrizione a stare seminudə anche in climi rigidi, condizioni che potevano portare a gravi malattie o alla morte stessa.
La differenza principale fra i freak show e gli zoo “umani” consisteva nel fatto che i primi puntavano sull’esibizione di individuə sulla base delle loro caratteristiche fisiche, mentre i secondi nascevano per mostrare le differenze etniche di individuə poco o per nulla conosciuti dal pubblico bianco occidentale.
Il successo degli zoo “umani” fu sancito dalle Esposizioni Universali che ne fecero una delle loro attrattive di punta. Lo scopo consisteva nel convincere l’opinione pubblica, non sempre favorevole all’opera coloniale, della legittimità dell’intervento bellico, soprattutto durante i due conflitti mondiali. A rafforzare l’idea della superiorità del mondo occidentale contribuiva l’esposizione delle persone, tenute in cattività, fianco a fianco alle nuove conquiste tecnologiche: i set ricreati ad hoc, le aree delimitate in cui erano segregate e da cui non potevano uscire non suscitavano alcuna empatia in chi guardava.
Dopo il secondo conflitto mondiale, nel quale molte delle persone provenienti dalle colonie avevano combattuto ed erano morte insieme allə colonizzatorə, si rese necessario giustificare il dominio sulle colonie elogiando l’opera coloniale stessa e mostrandone i benefici tramite la loro esposizione in abiti occidentali, sulla strada verso la cosiddetta civilizzazione.
Esiste una connessione tra l’oppressione di soggettività discriminate considerate non del tutto umane e l’oppressione delle altre specie animali. Tale connessione non consiste tanto nel rilevare che siamo tuttə biologicamente animali, quanto nel riconoscere un presunto status di inferiorità che le accomuna; risultato di un lungo processo di disumanizzazione e risignificazione dell’animalità. È ciò che affermano le sorelle Aph e Syl Ko parlando di black veganism, “veganismo nero”. Rilevare la fonte comune tra razzismo e specismo non significa paragonare le due oppressioni, ma giungere alla consapevolezza che i corpi ritenuti inferiori sono considerati solo al fine di giustificarne l’oppressione, in quanto appartenenti a gruppi che si discostano dalla concezione di homo sapiens bianco ideale: «[…] finchè gli animali sono oppressi, fintanto che “animale” significa qualcosa di degradante, non saremo mai liberi». (Aph Ko e Syl Ko, Afro-ismo)
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