Le esposizioni d’arte hanno la particolare capacità di esprimere molto più di quello che mostrano, e lo fanno in modo così sottile da comunicare aspetti che non sono propriamente artistici, ma hanno a che fare con il mondo in cui viviamo. Certo, questa è una caratteristica forse intrinseca al mondo dell’arte stesso, ma le varie biennali e quadriennali racchiudono in sé un universo fatto di allestimenti, scelte stilistiche e tematiche, modalità di visione o di nascondimento, che ci raccontano molto di come viviamo la contemporaneità e di come guardiamo la società oggi.
Forse è questo il caso della Biennale di Venezia 2024, organizzata dal curatore brasiliano Adriano Pedrosa, il primo curatore apertamente queer nella storia della prestigiosa istituzione. Il titolo che Pedrosa ha scelto per questa Biennale, Foreigners everywhere, vuole esplicitare in qualche modo l’approccio alla base dell’ideazione della mostra, ossia quello di mettere in primo piano soggettività che per molto tempo sono state tenute ai margini di qualsiasi manifestazione artistica. La Biennale si trasforma quindi in una piattaforma capace di far emergere e valorizzare un mondo sommerso, che si posiziona al di là del canone ufficiale occidentale e che riunisce in sé il concetto di straniero.
L’esposizione si muove a partire dalla profonda necessità di mettere in luce l’alterità dello straniero, e lo fa attraverso una visione gioiosa e piena di vita di un caleidoscopio di identità “altre”. Se per molto tempo il mondo dell’arte ha evitato di mostrare l’alterità, o, quando lo ha fatto, ha finito per essere oggettificante, ora assistiamo al suo disvelamento, come una sorta di ritorno del rimosso collettivo.
Ma chi abita questa percepita alterità? Sono popoli interi, sono il sud del mondo, persone queer, persone razzializzate e disabilizzate, sono insomma persone che vivono quotidianamente la marginalità sulla propria pelle. In questa ampia visione delle soggettività considerate altre si percepisce un criterio di fondo che ha molto a che fare con l’intersezionalità, nella misura in cui rende visibile le interconnessioni tra i vari assi dei sistemi di oppressione e discriminazione. Tuttavia, camminando per gli spazi della Biennale non si nota subito un intento didascalico o edificante, semplicemente l’intersezionalità si coglie come un motivo di fondo, e sono le narrazioni create dallə artistə a comunicare autonomamente con il pubblico.
L’ approccio intersezionale in questo particolare caso ha una doppia valenza interpretativa, se da una parte infatti è volto verso il passato, ad esempio per comprendere la storia coloniale dei popoli oppressi, dall’altro guarda avanti, verso un futuro indefinito che viene immaginato dallə artistə attraverso le loro opere. Passato e futuro però non sono visti come due dimensioni nettamente separate, ma si ha l’impressione che convivano all’interno degli spazi della Biennale, e che la loro relazione abbia un potere quasi generativo. Difatti, l’ə artistə presenti nell’esposizione paiono voler dare una continuità al passato e portarlo verso la generazione di futuri possibili attraverso un intento immaginativo radicale.
Un’opera che in tal senso può essere definita come la rappresentazione visiva di questa immaginazione critica è Void (2022) dell’artista Joshua Serafin, presente nello spazio dell’Arsenale della Biennale. Si tratta di una video performance a tematica queer che, attraverso una simbologia religiosa, comunica il bisogno intenso della creazione di un futuro in cui le persone queer non siano più oppresse dal sistema ciseteropatriarcale. Questa è solo una delle tante opere presenti in Biennale quest’anno che materializzano sotto le forme più diverse e disparate il bisogno e la volontà di continuare a immaginare futuri alternativi di libertà.
Immagine in evidenza: juliet-artmagazine.com
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