Nella cornice di I’m palestinian – spazio dedicato dalla 13esima edizione di Some Prefer Cake ai film della rete SHASHAT Annual Women’s Film Festival – verranno presentati fuori concorso, oggi alle 16.00, quattro cortometraggi, tra animazione, fiction e documentario. Di questi, abbiamo scelto di approfondire Silk Threads e Sard.
Tra le infinite storie possibili che le donne del cinema palestinese possono dischiudere approda la voce di chi ha passato la vita a raccontare attraverso i fili di tessuto.
Silk Threads è un documentario del 2019 diretto da Walaa Saada’. La regista, nata a Beit Hanoun, sulla Striscia di Gaza, nel 1990, dopo aver studiato lingua e letteratura araba all’università di Al-Azhar, si dedica alla sceneggiatura e poi alla regia per fare del cinema lo specchio di una memoria artigianale e locale che si nutre di segni ed elementi materiali, non solo di parole.
Le narratrici delle storie di Silk Threads sono figlie, cugine, sorelle intente a ricamare il thobe – abito tradizionale palestinese intessuto di fili di seta. Nel ricamo, nel movimento delle mani, si inscrive già il ricordo delle madri e delle nonne che ne hanno tramandato l’arte e il mestiere. Quello che non è solo un passatempo domestico rappresenta infatti una fonte di guadagno per molte donne, ma anche un’impresa memoriale. La prima donna che incontriamo, presa a macinare la farina a pietra e poi a ricamare, è stata costretta a lasciare il suo villaggio a 16 anni, già madre di suo figlio. Racconta che su ogni tessuto ricamava una rosa «come fosse un amuleto». La tunica beduina che indossa emerge da un tempo anteriore all’esperienza dello sfollamento e alla maternità, è impregnata di tempo vissuto. La dispersione della comunità palestinese dal 1948 a seguito della Nakba (la “catastrofe” così chiamata dalla popolazione arabo-palestinese in opposizione alla definizione di “guerra di indipendenza” imposta dallo Stato d’Israele) rende necessario il recupero di una continuità materiale e identitaria.
I fili spezzati dalla Storia possono trovare traccia nella storia di una trama significativa. Questo però non è possibile in condizioni di povertà materiale e indigenza, a volte di analfabetismo, di spaesamento geografico e temporale. Volendo recuperare il rapporto tra tessuto e testo (dal latino textum, letteralmente “intreccio” di fili diversi), il ricamo è la trama di segni che inscrive sulla stoffa la storia particolare e collettiva della Palestina. Il colore e i motivi dei tessuti possiedono una semantica, come ogni geroglifico della calligrafia araba conserva un suo valore iconico e simbolico (L. Curti, 2018).
Il discorso non è il solo strumento di trasmissione, né il più pregiato. La memoria passa attraverso i corpi delle mani che intrecciano i fili, nei racconti popolari tramandati oralmente. Sopravvive per vie alternative, persino negli odori che raccolgono i fili rimediati ovunque. Il ricamo si fa impresa memoriale perché è anche esperienza sensoriale. Fa sussistere nel presente dei motivi che si ripetono, o delle tuniche che si conservano, il passato di un luogo, di una città, di case che non esistono più. Il motivo di Gerusalemme raccoglie la nostalgia dell’assenza e il desiderio del ritorno anche per chi Gerusalemme non l’ha mai vista. Come in un racconto, insieme al tempo, costitutivo dell’intreccio, la dimensione dello spazio può essere significante. Molte tuniche sono arricchite dal motivo dei cipressi di cui è piena la loro terra, e dal motivo dell’acqua che è un richiamo alle sue risorse naturali. «Il nostro lavoro consiste nel disegnare la Palestina restando sedute», sentiamo dire dalle donne mentre le inquadrature dall’alto riprendono i rocchetti colorati di tessuto.
All’inizio ci sono solo spighe di grano, nascondono lo spazio sottile dell’orizzonte. Alla macchina da presa sfugge e all’occhio che si muove corrisponde una voce registrata: «Dio sa che tutto quello che posso fare è aspettare. Sono depressa, molto depressa. Davvero. Vorrei solo partire. Devo davvero partire».
Questi sono i primi minuti di Sard (2019) di Zeina Ramadan, giovane regista e content creator, già vicina alle produzioni Shashat nel 2013 con il corto Hush.
Sard è un breve documentario di animazione dove la narrazione (“sard” in arabo-palestinese) di una storia particolare interferisce in modo quasi estemporaneo con il piano reale-attuale di altre donne.
Attraverso i messaggi vocali scambiati tra Zeina e Reham scopriamo il tentativo di quest’ultima di lasciare Gaza occupata. Un viaggio sotto il segno dell’attesa, elemento che ricorre sempre, in tutti i corti presentati i I’m palestinian. Quello che vediamo sullo schermo esiste anche oltre l’inquadratura, trasgredisce in tempo reale il confine con l’esperienza di chi è dietro la macchina da presa. Non è il caso specifico della regista di Sard, ma di un’altra donna della rete Shashat, di cui per motivi di sicurezza preferiamo non rendere noto il nome.
Come ci racconta la regista Teresa Sala, una delle responsabili dell’organizzazione di Some Prefer Cake, la possibilità di inserire uno spazio dedicato al cinema palestinese è stata accolta con emozione ed entusiasmo. I’m Palestinian con i suoi quattro corti (The Ghoul di Ala Desoki; Silk Threads di Walaa Saada’ e I wish I weren’t palestinian di Feda Naser) vuole infatti mostrare la lotta del Shashat’s Women’s Cinema che dal 2005 promuove il cinema delle donne palestinesi in tutto il mondo.
Con il cinema si risponde alla necessità di dare voce a chi non è previsto ne abbia una: le storie della comunità palestinese colpita da cent’anni di guerra e da una condizione di segregazione. La loro battaglia però è doppia, essendo il racconto orientato dalla prospettiva di registe, autrici, donne palestinesi che sono colpite da una marginalizzazione ulteriore trovandosi in un contesto fortemente patriarcale e sessista. Poter ospitare a Bologna una delle partecipanti al progetto della rete Shashat avrebbe significato più che un’occasione preziosa di condivisione e dialogo. L’invito offerto alla regista, infatti, piove dal cielo negli stessi giorni in cui si sono consumati gli ultimi attacchi da parte dell’esercito israeliano che già da anni è andato ben oltre la soglia del crimine di apartheid. L’incontro avrebbe preso la forma di aiuto umano e supporto collettivo per una delle registe, ma purtroppo non è stato possibile realizzarlo. Nell’attesa della partenza si raggruma la speranza di sfuggire non solo all’annichilimento materiale ma anche psichico, emotivo, intellettuale che ne deriva.
Nel film, la partenza dalla Giordania della protagonista sosta nel limbo delle attese, delle risposte dall’università che non arrivano, tra la necessità e la paura di partire.
Il salto a ostacoli è il gioco perverso che le persone palestinesi si trovano a intraprendere per lasciare, anche solo temporaneamente, le loro terre rese campi di prigionia. Sono del tutto private del diritto di muoversi autonomamente, se non sotto la protezione di organizzazioni istituzionali e con l’autorizzazione da parte delle autorità israeliane.
I collegamenti e le infrastrutture israeliane non sono utilizzabili, questo vuol dire che la partenza è obbligatoria o dall’Egitto o dalla Giordania. Qui le uniche vie di passaggio sono i valichi (non sempre aperti) di Rafah ed Erez, ma sono luoghi di possibilità frustrati da liste esasperanti che richiedono in media tre mesi di attesa. Se il tasso di insuccesso è di norma altissimo, la situazione pandemica ha reso ancora più angusto lo spazio di movimento. A causa dell’emergenza sanitaria è possibile uscire solo per motivi di salute imprescindibili e per lavoro, condizioni che non potevano essere assicurate in questa occasione. Diventa impossibile non figurarsi nella voce che apre Sard la grottesca trasposizione inversa nella realtà.
Il cinema di una è il cinema di tutte per queste donne, perché le storie sono sempre particolari ma è una voce collettiva a raccontare le sfumature di una condizione comune di oppressione e segregazione. Sono le voci, gli occhi, le immagini a farsi testimonianza, arrivano negli interstizi dove i corpi non possono muoversi.
Immagini da someprefercakefestival.com
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