Mi guardai le scarpe.
Inclinai la testa, quella piccola testa rasata che si poteva quasi tenere in una mano.
«Non basta guardarle, forza», mi disse.
Le sedie scomode erano una delle poche cose rimaste a ricordarmi di essere ancora vivo.
Facevano male, e il contatto diretto con le ossa mi costringeva a muovermi più volte per alleggerirne il peso. E più il peso calava, più mi sentivo pesante.
Non esiste sedia più scomoda di quella della propria terapeuta dentro una comunità in un freddo mattino di febbraio con l’odore del vomito tra le dita.
Il cuore pulsava una quarantina di volte al minuto, ma mai di più, perché Lei non glielo avrebbe permesso. Un battito in più sarebbe stato fatale.
«Le sto guardando», le risposi.
Voce fragile la mia, in un corpo agile: un suono stonato, allontanato e mai fraterno.
Non sarebbe bastato considerare il dolore, lo avrei dovuto vivisezionare e prenderlo tra le mani, attraversarlo. Le slacciai, sbucarono i soliti calzini colorati frutto delle mie molteplici contraddizioni, di quella luce così buia da doverci sbattere contro.
Spostai la linguetta: quarantatré.
«Non ho sentito».
Ci sono le parole lette, e poi ci sono le parole pronunciate: lo scarto, in apparenza sottile, produce un’eco differente ed enorme.
Come il giorno in cui pronunciai il mio nome per la prima volta.
Non si viene al mondo senza lo strazio di lasciarci qualcosa indietro.
Fu il sapido tra le labbra a mostrarmi il pianto, il primo dopo mesi, anestetizzato dal sintomo che aveva occupato ogni mia giornata e istante nella sua implacabile, monotona, straziante e rassicurante agonia.
Quanta ironia.
Numero e sapore. Gli stessi elementi che avevo negato, nascosto, evitato, da cui ero ossessionato, ora mi avevano tradito. L’illuminazione fu un atto di negazione.
«Non è il mio».
Nessuno ti insegna quanto male possa fare la luce, di quanta paura si possa vestire.
Lei era entrata nella mia vita perché per me esserci era insopportabile. Lo erano quelle definizioni arroganti, quel loro vestirsi addosso a me come unico destino possibile. Lo erano il maschio, la femmina, il bambino, la bambina, l’azzurro e il rosa, il calcetto e le bambole.
Ero al mondo senza alfabeto. Le lettere, le parole, i numeri, gli spazi erano terre straniere. Avevano rovesciato davanti ai miei occhi il loro sacco, dicendo: «ci sono solo queste a tua disposizione!», e poi se n’erano andati.
Ero al mondo senza CORPO, ma con il corpo.
Quelle forme erano lividi, spine, la loro evidenza non era prevista. Smisi di guardarmi, di toccarmi, di mangiar(mi). Il corpo prima o poi se ne sarebbe andato, ne ero sicuro, avrebbe trovato un posto migliore dove stare.
Avevo scoperto la mia droga, il mio anestetico preferito. La potevo trovare ovunque, la potevo evitare o ne potevo abusare senza essere arrestato. Ero già in prigione, in libertà vigilata dalla mia anima. Le ossa presero il sopravvento sulla pelle .
Il vuoto, lo spazio, il foglio bianco, lo sguardo sempre basso e quel corpo da dimenticare da qualche parte per strada come facciamo con le cose che non ci servono più.
Così quel pomeriggio quel numero mi fece sentire nudo.
Quanti vestiti avevo indossato per sbaglio. Uno strato dopo l’altro, un colore, una taglia dopo l’altra per cercare di esistere in un corpo straniero, non sbagliato ma forestiero. Nella speranza di scorgere un vocabolo che mi assomigliasse, che mi risuonasse dentro, che non facesse il solito giro della stanza e mi lasciasse solo, di nuovo con questa afona evidenza di esserci ma altrove.
Di essere senza sapere come.
Ero una lista di diagnosi su un foglio bianco: anoressia nervosa, Dca, metodi di compensazione, Bmi, ossa, numeri, gesti, calorie, pasti.
Non esserci più senza il coraggio di non esserci più.
«Dobbiamo sempre scegliere se vivere o morire, dobbiamo farlo ogni giorno».
Quando l’abisso si apre c’è solo un’unica via possibile, attraversarlo.
Il sapore fu quello di una pizza fredda e piena di lacrime.
Il suono fu di quelle scarpe buttate sull’asfalto.
C’è un unico modo per potersi vestire, ed è rimanere nudi, esausti, vinti, affidati, sommersi.
Scegliersi è un atto di coraggio possibile.
Il proprio corpo, il proprio nome, sono le parole che mi dicono «benvenuto a casa».
Non come Lei, non come Lui, non come Egli, ma nell’unica lingua possibile, quella fertile che parla proprio come me.
Immagine nel testo da: www.anciabruzzo.it
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