Pier Paolo Pasolini nasceva cento anni fa, il 5 marzo 1922, e lasciava questa terra e questa vita nel più violento dei modi, il 2 novembre 1975, all’età di cinquantatré anni. Una cometa rapidissima, sferzante e lancinante, uno squarcio nella cultura italiana che segna un prima e un dopo, come la venuta di Cristo. Forse Pasolini non era che questo, un Cristo dalle mani chiodate: ma un Cristo è, pur nella sua natura contorta e nelle sue metamorfosi, pur sempre e senza dubbio un rivelatore, e come ogni bravo Messia ci lascia ancora adesso con messaggi da interpretare, con parabole da decostruire, e un codice da apprendere in una battaglia culturale sempre più serrata, che dal cinema si sposta all’accademia, e dall’accademia alla piazza.
Perché, se è vero che alcuni di coloro che hanno studiato Pier Paolo Pasolini in chiave queer lo hanno criticato per una serie di fattori – per la sua rappresentazione negativa dell’omosessualità, le sue opinioni conservatrici sulla politica gay e la sua presunta omofobia interiorizzata -, è inevitabile sostenere che, pur considerando l’impatto del contesto socio-culturale sulla prima visione dell’omosessualità, a cavallo degli anni Settanta, Pasolini sia stato il primo a concepire, in tutta la sua arte e in particolare nel suo cinema, la politica della differenza – e l’omosessualità all’interno di questa – come una forza motrice della lotta per una vera affermazione del sé, del principio di autodeterminazione del corpo queer e un’alternativa alla società capitalista. Alcuni dei suoi film (basti pensare a Teorema, Mamma Roma o Accattone), interviste e progetti non possono che mostrare, adesso evidentemente, come Pasolini stesse elaborando una politica più sinceramente sessuale, e anche operaia, prostituta e mendicante, miserabile, pezzente e stracciona – radicale e anti-identitaria, figlia di un Sessantotto vissuto a tutto tondo, che tra denunce e processi ricorda le riflessioni sviluppate dal movimento queer due decenni dopo. In particolare, negli anni precedenti la sua scomparsa, nonostante la sua esclusiva attrazione per i corpi maschili eterosessuali, Pasolini arrivò a considerare e rappresentare il corpo non normato come una forza destabilizzante e radicale contro la mascolinità egemonica e la politica dell’identità omosessuale.
C’è chi ha definito Pasolini un “anti-gay”: forse in quel momento il pensatore di questa corrente saltava la proiezione di Comizi d’amore, o la spettatrice bugiarda di Teorema si era persa tra le pellicole della rivelazione pansessuale, sbagliando al bivio della chiarezza e ritrovandosi in un altro film, una storia mai illustrata. È opinione diffusa, allo stesso tempo, che, dopo quel 2 novembre 1975, a Pasolini si debba guardare con il rispetto della devozione, come a un martire omosessuale, un santino da conservare nel nostro portafoglio arcobaleno e da sventolare come vessillo culturale, una lingua perduta che solo a volte ci ricordiamo di avere. Non c’è niente di più sbagliato: Pasolini non era un anti e non era un pro, non era parte di un movimento per i diritti (che nel frattempo nasceva in quegli anni, in forma tanto borghese quanto indisciplinata, dai librai e dai pamphlet, dai laureati in filosofia ma anche dalle contestazioni, dal sesso e dalla gola, dalla voracità, di farne sempre più libero e più liberamente), contestava il costrutto obbligante del matrimonio, e non avrebbe mai voluto essere un’icona gay. Pasolini era un narratore, e un anarchico della libertà: di solito, quando questi due termini si accoppiano in gloriosi amplessi, non possono che nascere inni di lucida celebrazione alla vita, all’amore libero, all’erotismo e alla carnalità senza costrizioni né vincoli, senza giuochi o castrazioni, senza abolizioni e limitazioni. Adesso noi raccogliamo un’eredità culturale che trasformiamo in pratica politica, e leggiamo – e, a tratti, eleggiamo – Pasolini non più come regista e pensatore autonomo, ma come forma di legittimazione di teorie che non sono le sue: ma, nella realtà dei fatti, nel suo atto del narrare di ragazzi di vita, di emarginati e di sopravvissuti, di accattoni e puttane, Pasolini configurava già la nostra azione anti-borghese, anticapitalista; dalla borgata trascriveva, filmava ed esponeva al mondo, nelle loro esistenze crude e reali, nei loro margini e nei loro spazi privati, vite che adesso sono anche le nostre, in cui amore, sesso, sopravvivenza e crudeltà si intrecciano con il coraggio di affrontare la più libera scelta, quella di riappropriarsi del proprio corpo così com’è; e si intrecciavano anche con l’allegria di vivere le cose senza obbligatoriamente dovergli dare un nome, con la serenità di una pratica sessuale non costretta e non obbligata da nessun vincolo se non la fame o la gratitudine, o la semplice voglia di esplorare e di esplorarsi. Così Pasolini racconta le periferie e sconvolge i centri borghesi, e chiede comizi d’amore che sono anche indagini, che sono storie di desiderio e desideri, di pratiche e di natura; e nella sua eredità noi raccogliamo la naturalezza di parlare del nostro sesso come acqua corrente, dell’averci liberato dal tabù di oscurantismi determinati da una morale che altro non è che una sovrastruttura, una regola imposta che inevitabilmente cozza con lo stato di natura umano. I suoi personaggi, che adesso siamo anche noi, si allontanano dal ceto medio riflessivo, se ne discostano con la libertà di scegliere un’altra vita, e con la possibilità, stavolta, di essere visibili, di poter dire ad alta voce di essere forme di vita sessualmente senzienti, eterosessuali, omosessuali, bisessuali o nessuna di queste opzioni: perché, se c’è un insegnamento che dobbiamo trarre da Pasolini, cent’anni dopo la sua venuta al mondo e quasi mezzo secolo dopo la sua dipartita, è che pensare a una natura umana unica è il più grave errore che possiamo fare – esistono altre forme di vita, e ogni essere che abbia vissuto l’esperienza umana siamo noi.
Immagine in evidenza da artphotolimited.com, immagini nel testo da thevision.com e da ilgiornale.it
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