La stagione dei Pride che si apre, in mezzo all’inasprirsi di un genocidio in terra palestinese, ci chiama a prendere posizione in modo netto come persone queer che lottano per una giustizia globale, per i diritti delle minoranze, contro il razzismo e lo sfruttamento.

Non si tratta solo di denunciare la “catastrofe umanitaria in corso a Gaza”, come se fosse un accidente climatico, senza nominarne le cause, e nemmeno di schierarci contro la violenza e per la pace o per un cessate il fuoco immediato (anche se sono posizioni preferibili all’indifferenza, al non prendere posizione affatto “perché è una situazione complessa”, o all’adesione alle argomentazioni dell’aggressore, identificato come “forza del bene contro la barbarie islamista”).

Molt3 di noi hanno urlato fin da ottobre – alcune lo fanno da almeno vent’anni – “No pride in genocide” e “Le froce lo sanno da che parte stare”, anche dando per scontato che nella comunità LGBTQIA+, la consapevolezza di come i nostri corpi e le nostre soggettività sono implicate in questa storia, lunga ormai 75 anni, fosse abbastanza alta.

In effetti, usiamo quotidianamente le espressioni “pinkwashing” e “rainbow-washing” per descrivere qualunque forma di strumentalizzazione politica o aziendale delle lotte queer, ma a volte dimentichiamo il ruolo paradigmatico dello stato Israeliano nel costruire e sviluppare questo dispositivo, proprio perché si è generalizzato e globalizzato.

La resistenza dell3 queer palestinesi diventa così in questo momento antesignana delle lotte queer globali.

Da molti anni i gruppi queer palestinesi denunciano il Pinkwashing come parte di una campagna di PR, lanciata nel 2005, in modo da distogliere l’attenzione internazionale e nazionale dal dominio coloniale israeliano e dai crimini di guerra strumentalizzando i “diritti

gay; come il tentativo di giustificare l’occupazione israeliana della Palestina, ritraendo Israele come un paese progressista e come unico paradiso per i soggetti LGBTQ, in diretto contrasto con il resto della società in Palestina e in Medio Oriente. Un tentativo di squalificare i vicini di Israele per giustificare la necessità dell’esistenza dello Stato di Israele con ogni mezzo, sulla base dell’immagine di una democrazia isolata al limite della sopravvivenza circondata da società violente, intolleranti, misogine e arretrate.

Nel novembre 2011, l’attivista queer Sarah Schulman ha pubblicato un editoriale sul New York Times , dal titolo Israele e il Pinkwashing, in cui ricostruiva la campagna Brand Israel che dal 2005 ha investito milioni di dollari per propagandare nelle comunità queer di Stati Uniti ed Europa, nei festival di cinema, teatro, danza, l’immagine di Israele come gay friendly, in modo da assicurarsi che l’opinione pubblica delle nostre comunità, molto sensibile al tema dei diritti umani, non si schierasse con la resistenza palestinese all’occupazione coloniale e alla violazione sistematica dei diritti umani in atto a Gaza e nei Territori occupati da molto prima, evidentemente, del 7 ottobre. O almeno passasse il punto, ancora oggi molto diffuso, che “sì i palestinesi sono oppressi, ma sono omofobi e sessisti, mentre Israele è dalla nostra parte”.

La stessa Schulman ha poi aggiornato un dossier fino al 2016, mentre un’ampia ricostruzione è disponibile in questo articolo del 2022 di Riccardo Carraro.

I gruppi queer palestinesi ci hanno detto in questi ultimi 15 anni che il Pinkwashing non è solo propaganda, ma anche una costruzione coloniale sul territorio che fa parte delle politiche di occupazione, perché spinge le persone queer palestinesi a identificarsi come vittime, a nascondersi, a sentirsi subalterne, e crea da entrambi i lati una separazione che depotenzia le lotte queer.

Nel 2007, la teorica Jasbir Puar, nel suo Terrorist assemblages. Homonationalism in queer times, purtroppo mai tradotto in italiano, ha ricostruito come, dopo l’11 settembre 2011, sia cominciata negli Stati Uniti una forte propaganda legata alla “guerra al terrore” che include e strumentalizza i diritti LGBTQIA+ e delle donne per giustificare la politica imperiale e gli obiettivi geopolitici dell’Occidente, dall’Iraq, all’Afghanistan all’Iran. Per Puar siamo di fronte a un nuovo paradigma biopolitico, l’omonazionalismo, che arruola le lotte e le vite queer, non più considerate legate alla morte e alla improduttività (si pensi allo stigma dell’Aids nel ventennio precedente e in generale all’identificazione delle frocie come soggetti contro le basi cosiddette “naturali” della società, della famiglia, della presunta civiltà), ma come parte attiva della riproduzione sociale, della vita non sacrificabile, come metro di misura della democrazia.

Ovviamente, il risvolto di identificare una parte della vita queer come civile e produttiva è esporre chi non si arruola nelle politiche nazionali e imperiali, alla sacrificabilità, in quanto assimilabile al barbaro e al nemico della democrazia, che dall’11 settembre in poi è identificato con il terrorista islamico.

Non è casuale che dal 7 ottobre in poi, Israele intensifichi proprio questa identificazione tra popolo e resistenza palestinese con Hamas, che identifichi quest’ulimo, potenzialmente l’Iran e per estensione il mondo islamico con il nemico della democrazia di cui vorrebbe ergersi a paladino. Lavora su una lunga stratificazione di pinkwashing, islamofobia, razzismo che ha costruito questi binarismi tra Occidente/islam, civiltà/barbarie, democrazia/teocrazia islamica.

Per inciso, è proprio questa costruzione che consente a Giorgia Meloni di dichiarare, il 17 maggio 2024, mentre il governo di cui è a capo sta perseguitando le famiglie omogenitoriali, le persone trans e in generale non aderisce nemmeno agli standard minimi delle “sexual democracies” europee, né alle prese di posizione umanitarie degli organismi internazionali sulla Palestina: «è nostro compito tenere alta l’attenzione della comunità internazionale sulle persecuzioni e sugli abusi che in molte nazioni del mondo, come ricordato anche oggi dal presidente della Repubblica, vengono ancora perpetrati in base all’orientamento sessuale».

L’omolesbobitransfobia è proiettata sul nemico, fuori dai confini della nazione.

Tornando al presente e al che fare come persone queer, in «Un appello liberatorio da parte di persone queer in Palestina», lanciato nel novembre 2023 (vedi anche in traduzione italiana su IG: @queerinpalestine), i gruppi queer palestinesi, la cui stessa esistenza viene negata dalla narrazione egemonica come contraddizione in termini («non possono esistere persone queer in Palestina, le ammazzano tutte»), ci chiedono di essere solidali con il popolo palestinese nella sua resistenza allo sfollamento forzato, al furto di terra e alla pulizia etnica e tra le altre cose: «fate quello che le persone queer anticoloniali hanno fatto per decenni: riprendetevi la narrazione e stabilite i termini della conversazione, questa volta sulla Palestina».

I gruppi queer for Palestine che si sono costituiti su questa scia, anche a Bologna, e in generale le persone e associazioni LGBTQIA+ che si sono schierate, hanno lavorato sulla contronarrazione, dando innanzitutto voce agli appelli delle persone queer in Palestina e alla loro autorappresentazione. Per questo a Bologna, come in tantissime città del mondo, molte realtà e singole soggettività hanno aderito agli appelli dell3 queer in Palestina, come ad esempio a novembre sono stati mostrati i film e corti di Queer cinema for Palestine in molti luoghi della comunità e dell’associazionismo.

Il posizionamento Queer For Palestine è cresciuto poi nel rendere visibile la partecipazione queer e transfemminista nelle manifestazioni organizzate dai gruppi Palestinesi in questi mesi in molte città, nel porsi come alleate a questa lotta, fino allo spezzone No pride in genocide nella manifestazione nazionale a Milano del 28 febbraio.

Una postura decoloniale, come ha sottolineato Rachele Borghi in una iniziativa di vari gruppi pro palestina durante l’acampada in università a Bologna, ci chiama a essere non solo alleate, ma complici. Siamo complici nella misura in cui non parliamo per le persone palestinesi, ma lasciamo spazio alla loro voce. Siamo complici, se rifiutiamo e ci disidentifichiamo dal pinkwashing e capiamo quanto questa guerra, questa battaglia viene fatta anche di rimando sui nostri corpi, usandoli come arma di propaganda e di autoaffermazione del sionismo e della pratica israeliana.

Nel prendere posizione e nel renderci visibili come Queer for Palestine ci confrontiamo con le più svariate reazioni istituzionali. Il Bergamo Pride si è visto togliere il patrocinio del Comune solo per aver chiesto il cessate il fuoco, una misura minima, urgente e necessaria.

A Bologna, dove le realtà queer 4 palestine e le principali associazioni che attraversano l’assemblea del Rivolta Pride hanno preso una posizione chiara da mesi contro il genocidio e l’occupazione, quando il comune ha esposto la bandiera Palestinese, è venuta proprio da esponenti della comunità la richiesta di affiancarle quella Israeliana. In un comunicato di risposta, il Cassero si dice contrario all’esposizione della bandiera israeliana «perché questo darebbe un’interpretazione colpevolmente miope della dinamica di oppressione e violenza storica ai danni dei/lle palestinesi». Un punto importante della contronarrazione, da tenere a mente anche per i Pride: non si possono azzerare le asimmetrie di potere e mettere sullo stesso piano colonizzatore e popolazione oppressa (la cui bandiera, significativamente, non è nemmeno la bandiera di uno stato).

Nemmeno si possono parificare la violenza di stato contro popolazioni oppresse con l’oppressione etero-patriarcale all’interno di queste popolazioni, come spesso fa chi interiorizza la propaganda omonazionalista: la società palestinese è certamente omofoba e sessista, lo stesso si può dire di quella israeliana o italiana, non mi pare che questo possa giustificare il bombardamento indiscriminato della popolazione civile di questi paesi.

Nei Pride di quest’anno, più che mai, siamo chiamat3 ad affermare che questo genocidio deve cessare, che non si fa in nostro nome e sui nostri corpi. Che la soggettività queer non è appropriabile per costruire dei confini tra civiltà e barbarie, tra Occidente democratico e Islam o mondo arabo arretrato. Abbiamo a disposizione una potente genealogia queer, transfemminista e femminista per decostruire questi binarismi, che in questo caso provano ad arruolarci dal lato dell’oppressore e del genocida: come persone LGBTQIA+ abbiamo vissuto sulla nostra pelle l’essere deumanizzat3, stigmatizzate, considerate antisociali, pericolose e quindi vite sacrificabili. Per questo, mai come ora è vero ciò che ci ha detto Judith Butler, portando la sua solidarietà all’acampada pro Palestina a Bologna: «non c’è politica queer senza una critica radicale dell’occupazione e del sionismo». 

Per questo vogliamo far risuonare No Pride in genocide in ogni Pride.