Federica lasciò cadere il ragazzo che amava contro un portone sconosciuto di via del Volto Santo. Da quando aveva iniziato la transizione si era sentita spesso debilitata, ma qualcosa era appena cambiato. Ora era forte, molto più forte di prima. Ester, la madre di Matteo, l’aiutò a sostenerlo con un braccio mentre con l’altro faceva tintinnare le chiavi nella toppa. Nemmeno lei era più come la donna spenta in superficie che era un tempo. Si mossero molti meccanismi a pochi centimetri da loro e si aprì un soggiorno buio, nonostante fosse già giorno in tutta Bologna. Nessuno sapeva se fossero passate ore o giorni durante la loro permanenza ad Atlantide, ma non aveva importanza: Matteo doveva essere fatto riposare. Aveva bevuto qualcosa di forte, le visioni lo avevano fatto delirare e aveva sudato tutta l’acqua che aveva in corpo. Non c’era molto tempo per rimetterlo in piedi. Senza doversi dire nulla le due donne mollarono il corpo inerme su un divano ricoperto da un lenzuolo bianco.
“Di chi è questa casa?”
Ester aprì un rubinetto che sembrava sigillato da mesi, se non addirittura anni.
“Amici. Atlantide è ovunque.” Un tuono nelle tubature e l’acqua cominciò a scorrere. “Credo che Matteo abbia ricevuto le informazioni che ci servono per riprenderci Riccardo e la nostra vita.”
“E noi?”
“Noi siamo donne. Dobbiamo proteggerlo.”
Federica annuì, come se quanto detto chiudesse ogni altra questione. “Vado a controllare porte e finestre.” Ester indicò la sua sacca sportiva. “Ho della roba da mangiare, se non basta scendo dal paki”.
Federica sorrise mentre percorreva il corridoio. “Che nessuno osi mettersi contro la mamma di Matteo…”. Ester chiuse il rubinetto, sussurrando. “O contro la sua nuova fidanzata.”.
Venne notte senza che il ragazzo aprisse le palpebre.
I suoi occhi si muovevano sotto di esse, agitati dai sogni, perennemente alla ricerca di qualcosa. Lo avevano portato in una stanza nell’angolo più remoto della casa. Lì avevano allestito un accampamento di coperte e cuscini sul pavimento. Da una stretta finestra si vedevano i tetti di tegole brune di Bologna. Una volta che ebbero consumato alcuni panini, scolato due birre e finito una bottiglia d’acqua tutto si ridusse ad un’attesa vigile. Con qualche breve pausa ad occhi chiusi, certo, ma senza dubbio senza riposo.
Matteo spezzò il silenzio con un profondo respiro seguito da un rantolo e da un urlo a voce rotta. “L’anello. La faccia. LA PORTA!” gridò, scattando seduto.
La porta dell’appartamento, dall’altra parte della casa, ebbe un sussulto sordo. Fede, che stava per abbracciare Matteo, si girò fulminea verso il corridoio. Scivolò a controllare la porta, osservando fuori da uno spiraglio. Passò qualche minuto, in cui Ester rassicurò con un filo di fiato Matteo, ancora confuso. Nella casa il silenzio era rotto solo dai rumori del centro storico che si preparava all’ennesima serata estiva. Federica strinse l’attizzatoio di ferro battuto che aveva trovato in salotto, eletto a sua arma prediletta, e cercò di auscultare i moti nell’appartamento. Le sembrò di sentire un passo, poi ne udì chiaramente un altro. Vide poi un’ombra passare davanti alla superficie riflettente di una vetrinetta. Fede chiuse allora la porta delicatamente e cominciò a girare la chiave nella toppa con attenzione, senza farsi sentire. Fece cenno agli altri di uscire dalla finestra.
Tempo di un veloce controllo fuori e Matteo era già in piedi, barcollante. Ester si stava caricando il borsone sulle spalle. In quell’attimo la maniglia della porta cercò di girare, incontrando il blocco della serratura.
Un paio di pugni si schiantarono allora sul legno della porta e poi un calcio dato con quanta più forza possibile la fece quasi crollare in un sol colpo.
“MAMMA!” La voce di Riccardo trasfigurata dalla rabbia esplose con ancora più violenza del colpo che aveva appena sferrato. “MAMMA SEI VIVA!” Un altro schianto fece partire uno sbuffo di segatura dai cardini della porta. “MAMMA, TRANQUILLA, RIMEDIAMO SUBITO, CI PENSO IO!”
Peccato che non fosse rimasto nessuno nella stanza a godersi la scena. Federica ed Ester aiutavano Matteo a muoversi sui tetti affacciati sulla corte interna del palazzo. I loro passi incontravano tegole e cornicioni, comignoli e grondaie intasate. Erano bastati pochi attimi per arrivare a un terrazzo. Matteo si buttò a terra.
“Matte rialzati. Ci sono addosso! Che fai?!” Fede lo strattonò ma lui rimaneva con lo sguardo perso sulla parete davanti a lui, le pupille ancora visibilmente dilatate. “Matte!” Lo supplicò.
Lui scostò un sacco di compost per giardinaggio, facendo cadere una scopa e un sacco pieno di bottiglie di vetro vuote. Davanti a loro si svelò il profilo di una porticina seminascosta dall’intonaco dato per celarne l’esistenza, del tutto simile a quella da cui era iniziato tutto.
“Ora conosco il loro segreto.”
pubblicato sul numero 19 della Falla – novembre 2016
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