di Roberto Pisano
La reina è sottile come una lisca. Avanza con difficoltà su un deambulatore ma intona felice le note di una canzone popolare degli anni cinquanta e ricorda ad alta voce quando nessuno voleva trovare da dire con lei perché “feroce”. La sua storia e quella di altre ventiquattro sex workers messicane tra i 60 e i 90 anni sono raccontate nel documentario La muñeca fea, presentato ieri all’Hacker Porn Film Festival di Roma. Oltre dieci anni di lavoro e più di cento ore di girato, con un set particolare: Casa Xochiquetzal, comunità rifugio delle sexoservidoras di Città del Messico, nella Merced, il quartiere a luci rosse della capitale.
Il nome è azteco e definisce la dea della bellezza, dei fiori, dell’amore sessuato. Fra le mura di questo edificio donato dal sindaco e rimesso a nuovo con la pazienza del volontariato militante, hanno costruito una famiglia e un senso di solidarietà che prova a curare vite segnate dall’abuso. George Reyes, documentarista affermato di origine colombiane ma cresciuto a Harvard, insieme a Claudia Lopez, sua ex studentessa all’Università di Città del Messico, mostrano donne di terza età nascoste dietro un angolo, sguardi malinconici e una fretta misteriosa. Signore procaci che non rinunciano mai al trucco e a qualche gesto d’amore per il proprio corpo davanti allo specchio. E che – man mano che aumenta la confidenza con le telecamere – ballano con incredibile destrezza e sensualità.
Vite dedicate alla prostituzione, non per scelta, ma per fame, quando la coercizione non veniva addirittura dalle mani di mariti incapaci di affetto e di procurarsi un reddito. Velleità artistiche strappate (“avrei potuto accarezzare un clarinetto come si prende un uomo”) per far spazio al mestiere più duro, che alcune di loro ancora praticano per comprarsi lo shampoo o la biancheria intima. Con clienti abitudinari, anche ventenni, “affezionati al talento e alla sapienza”.
A fondare Casa Xochiquetzal è stata proprio una sex worker, rapita da ragazzina e costretta a sposare il suo aguzzino. A 22 anni già sette figli, e in più l’onere di portare il pane a casa, per un marito che conosceva solo il verbo dei pugni. Emancipatasi con fatica, fuggita dalla prigione casalinga anche grazie a un nuovo affetto, ha iniziato a offrire un riparo, un pasto, dei vestiti alle sue ex colleghe. E ricucendo le loro storie le viene el sueño loco di un posto dove regalargli sicurezza. Uno spazio dove siano riconosciute, dopo essere state emarginate per una vita.
Nonostante la durezza dei marciapiedi, le protagoniste non rinunciano all’irriverenza, raccontando la loro personale arte, i primitivi ma efficaci metodi per evitare il contatto diretto con i genitali, il rito della sensualità (“matarlo nell’attesa, far crescere il desiderio fino allo spasimo”).
Racconti da ascoltare senza stigma, come sottolinea la psicologa dello staff, di chi si è sempre sentito un disturbo per il governo e una fonte di vergogna per la famiglia (i figli di molte di queste eterne ragazze non osano avvicinarsi alla Casa per non ammettere al vicinato, prima che a se stessi, il mestiere delle madri).
Come tutti gli interventi sociali non mancano gli spigoli e quando la gestione passa in mano a chi predica realismo (relazioni politiche per rilanciare il progetto, orari, compiti, pulizia) la comunità si divide tra chi dalla cooperazione trae il piacere di sentirsi utile (in cucina, a lezione di pittura o teatro) e chi è devastato dalla perdita di autonomia, spingendosi a preferire nuovamente la strada. Perché non sempre la professionalità sa digerire le contraddizioni se non è accompagnata da esperienza e sensibilità.
La muñeca fea è un’opera volutamente grezza, cinema-verità che restituisce una foto di gruppo intensa. Una via dolce per raccontare vite che nonostante la sofferenza e gli abusi sono state piene di grazia e resilienza. E meritano dunque il ricordo e l’ammirazione.
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