Questa domenica, a conclusione di un mese decisamente turbolento per la politica statunitense, si terrà la 97esima edizione dei Premi Oscar. Tra i film in concorso che si contendono i premi più ambiti del cinema occidentale è chiaro che quello che ha fatto più discutere è Emilia Perez. La domanda che di fatto domina i titoli delle principali testate giornalistiche è proprio relativa a quello che fino a due mesi fa era il film favorito di questa edizione: quanto le vecchie dichiarazioni di Karla Sofía Gascón hanno effettivamente danneggiato la possibile vittoria non solo nella sua categoria, ma anche nella altre in cui è candidato Emilia Perez?

Lo stesso film presenta infatti già un primato non da poco per i primi Oscar nella seconda presidenza Trump: è infatti la pellicola non in lingua inglese con più candidature di sempre.

Il film di Jacques Audiard racconta le vicende di Emilia, boss della droga, che decide di intraprendere il percorso per la riassegnazione di genere,e  ha riscosso un grande successo a Cannes 2024, dove Gascón ha vinto il Premio di interpretazione femminile insieme alle co-protagoniste Zoe Saldaña, Selena Gomez e Adriana Paz.

Ma se è vero che il film prometteva (o promette ancora?) successo in molte delle categorie, è senza dubbio per quella della migliore attrice protagonista che ha già fatto la storia portando la prima persona trans alla candidatura.

Prima di Gascón, solo poche persone trans avevano ricevuto una nomination agli Academy Awards, ma mai per la recitazione: la compositrice Angela Morley fu la prima persona trans candidata agli Oscar nel 1975 per la colonna sonora di Il piccolo principe; Anohni, artista non binaria, ricevette una nomination nel 2016 per la canzone Manta Ray; nel 2018, Yance Ford fu il primo regista trans candidato all’Oscar per il documentario Strong Island.

Eppure di personaggi con identità trans che hanno fatto guadagnare la candidatura ad attori e attrici cisgender ce ne sono stati ben nove, di cui quattro per attore e attrice protagonista e cinque per attore e attrice non protagonista. Il personaggio Brandon Teena in Boys don’t cry valse addirittura la vittoria dell’Oscar come migliore attrice protagonista a Hilary Swank.

In un mondo come quello di Hollywood in cui le storie di vita di persone trans (con tutta la drammatica retorica tipica di film come Transamerica o di focus quasi ossessivo sul corpo come in The Danish Girl) risultano occasioni allettanti per attori e attrici cis per lanciarsi in prove attoriali strappa applausi, è a dir poco scontata l’importanza storica di una candidatura ottenuta finalmente da un’attrice che quell’identità l’attraversa.

Ed è proprio nell’atmosfera di un evento storico che, il mese scorso, la candidatura agli Oscar di Karla Sofía Gascón è stata travolta da polemiche a causa di alcuni vecchi tweet pubblicati tra il 2016 e il 2021, in cui l’attrice aveva espresso opinioni offensive su diverse comunità, tra cui quella musulmana e afroamericana. Nello specifico, in occasione dell’uccisione di George Floyd si era espressa definendolo un “drogato e truffatore”, ribadendo poi il concetto criticando il sostegno alla diversità durante gli Oscar 2021 e paragonando la cerimonia a una “manifestazione Black Lives Matter”; dodici di questi tweet incriminati erano poi rivolti alla popolazione musulmana definita come “un’infezione per l’umanità”.

Scoppiata la polemica, Gascón ha cancellato il suo account affermando in seguito che lo aveva fatto perché “non potevo più permettere a questa campagna di odio e disinformazione di influenzare me e la mia famiglia, quindi su loro richiesta sto chiudendo il mio account su X”.

Il messaggio di scuse, che ha tardato ad arrivare e che comunque non ha attenuato le forti critiche nei confronti dell’attrice, si è sviluppato su due dei temi principali che spesso vediamo accavallarsi in ambito di dibattito su hate speech e cancel culture.

In un primo passaggio infatti Gascón ha scritto «Sono passata dal vivere una vita normale a una vita ai più alti livelli della mia professione in soli sei mesi, ora la mia responsabilità è molto grande perché la mia voce non appartiene solo a me ma a molte persone che si sentono rappresentate e che in me nutrono speranze. (…) Non posso riparare ciò che ho fatto nel passato, posso solo dire che oggi non sono la stessa persona che ero 10 o 20 anni fa, che pur non avendo mai commesso un crimine non era certo perfetta, e che nemmeno lo sono ora. Solo voglio imparare e essere una persona migliore ogni giorno». 

Questa parte del messaggio, che potrebbe sembrare un mea culpa abbastanza consapevole della responsabilità in quanto figura pubblica, è stato però seguito dalle seguenti parole: «Chiunque mi conosca sa che non sono razzista (si sorprenderanno quando scopriranno che una delle persone più importanti e a cui voglio più bene nella mia vita attuale è musulmana) né nessuna delle cose per cui sono stata giudicata e condannata senza giudizio e senza la possibilità di spiegare le mie vere intenzioni (…) cose che ho scritto per glorificare le hanno trasformate in critiche, battute interpretate come se fossero realtà, parole che senza il contesto sembrano solo d’odio».

Questa dualità nella risposta di fatto non fa che rappresentare al meglio la situazione del caso: da una parte abbiamo una donna trans, in un ambiente che non le ha reso la carriera semplice, che dopo anni di vuoto finalmente si vede riconosciuta come artista, portando nel dibattito pubblico la voce di tutte le persone queer ignorate e non viste dal grande cinema; dall’altra, invece, una persona fallibile, figlia di una cultura razzista e giudicante che le impedisce di vedere quanto le sue affermazioni non possano essere assolutamente inserite nel contesto di una battuta per depotenziarle dal valore discriminatorio che inevitabilmente portano con loro.

Indipendentemente dalla vittoria o meno di Emilia Perez e della sua interprete principale, risulta chiaro che questo evento storico nel mettere un nuovo accento sul tema della rappresentatività delle identità queer sul grande schermo, ha però aperto una voragine sul dibattito relativo alla cancel culture: il fatto che la voce e l’immagine di questo evento epocale per il mondo LGBTQIA+ sia stonata e offensiva rispetto alle battaglie intersezionali della stessa comunità sembra aver spazzato via l’effetto dirompente di vedere tra le candidate a miglior attrice una donna che per l’attuale presidente degli Stati Uniti non dovrebbe nemmeno appartenere a quella categoria di nomination.

E in fondo è questa la sottile ironia, la dolce maledizione della pratica politica dell’ostracismo: tutto deve essere tolto e niente deve rimanere. Il virus dell’hate speech, dell’affermazione discriminatoria, dell’atto violento contagia tutto quello che quella persona è e fa. Non c’è assoluzione apparente, nel voler proteggere e tutelare si finisce per punire ed eliminare. Ma è forse possibile una pratica politica che ci permetta di continuare a monitorare ed eventualmente segnalare senza però vestire il ruolo di boia sociali? È possibile vedere Karla Sofía Gascón nella dualità che rappresenta? Una persona figlia del suo tempo, con contenuti razzisti e islamofobi dei quali doverosamente rispondere con risorse e tempo e non con l’ennesimo tweet, ma al tempo stesso una bravissima attrice trans? Una persona che riconosce i suoi errori, che fa un lavoro su sé stessa e sul suo passato, ma al tempo stesso, si spera, prima donna trans vincitrice dell’Oscar come migliore attrice protagonista?