Sara Forbicini, classe ‘99, vive ad Alfonsine e ha frequentato il triennio di Illustrazione e Fumetto all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Sta lavorando a una pubblicazione per ora top secret, ma l’editoria rischia di farla impazzire prima di vederla su carta. Ha intenzione di proseguire il percorso di studi sperando, nel frattempo, di sopravvivere.

Nei tuoi lavori ho notato un forte utilizzo del bianco e nero con tratti che mi hanno ricordato le incisioni all’acquaforte, da dove arrivano?

In Accademia ho fatto un corso di incisione che mi ha lasciato tantissimo. Lavorando in acquaforte e a cera molle ho potuto acquisire un’impronta di segno che persiste anche quando disegno. Diciamo che se potessi darmi a quello che mi piace davvero mi concentrerei solo sul corpo. Dovrei dire a proposito che ho sempre sofferto di dismorfia e in qualche modo lo studio del segno, quale che sia il modo in cui viene impresso, mi ha permesso di approfondire questa ricerca. Grazie a questa pratica sono riuscita a esplorare anche la mia identità: assolutamente frocia. Chiaramente è un processo tuttora in corso, che comporta l’affrontare questioni complesse. Ho sempre sofferto di alcuni disagi mentali, ho trovato una concretezza cui aggrapparmi proprio nell’atto di disegnare. Anche per questo ho lottato e sto lottando per fare di questa cosa il mio lavoro.

Avevo notato infatti una certa attenzione al corpo e al dato anatomico.

Mi sono accorta quasi da subito, quando mi sono messa a disegnare, che la mia forza era quella di copiare dalla realtà. Appena tredicenne mi sono ammalata e per alcuni anni non ho più disegnato, mi sentivo in un abisso e senza passioni. Per reimparare a disegnare, non toccando una matita da quasi cinque anni, ho ricostruito il mio senso della percezione tramite il disegno, per  riprendere un po’ in mano la realtà così come la vedevo. 

Non riuscivo a capire l’altro, per cui mi sono messa a osservare. Dall’osservazione e dalla comprensione dello spazio è scaturito di nuovo il disegno. Io non mi riesco a percepire con dei confini, un qualcosa di materiale, ma riesco a dare più o meno una forma a ciò che, anche se non è reale, è quello che sento di essere. Quando pensavo di rappresentare me stessa mi chiedevo come fossi, ma non riuscendo ad avere una risposta ho raggiunto una consapevolezza: sono più del mio corpo, più complessa, sotto un profilo emotivo e spirituale. Questo è uno strumento che mi permette, nel disegno, di continuare la mia personale ricerca emotiva ed esperienziale. In ogni caso, quando disegno sento che tutto va al suo posto.

Come hai lavorato al tema del poster della Falla?

Devo dire che è stato abbastanza complesso. Il tema del tone policing mi ha subito intrigato, anche perché mi è capitato spesso di subirlo. Ho dovuto lavorare di mediazione, forse perché il mio modo di rappresentare è tendenzialmente più concettuale, spesso tolgo dettagli, invece qui ho dovuto inserirne. Alla fine sono arrivata a un onesto compromesso, anche se non è stato facile. È stata un’esperienza che ho apprezzato perché mi ha portato fuori dalla mia comfort zone.