«Ognuno, sempre e dappertutto, più o meno coscientemente, impersona una parte…è in questi ruoli che ci conosciamo gli uni gli altri, è in questi ruoli che conosciamo noi stessi» scrive il sociologo Erving Goffman. Del resto, pensando che persona è il termine latino per maschera, si capisce intuitivamente perché, da sempre, la rappresentazione artistica ha creato lo spazio ideale per essere altro da quello che la società e la biologia hanno deciso per noi. 

Recitando si può rendere vera un’altra propria identità, liberandola da una società per cui sarebbe scomoda. Non solo: la stessa possibilità di diventare altro su un palco mette in crisi il concetto di identità chiusa. Lo si è capito bene negli anni Settanta, anni affamati di esigenza di far saltare le definizioni, soprattutto attraverso la creatività. Si cominciava a sentire, dietro le conquiste del ‘68, il peso dell’ideologia e il non essere più disposti ad attendere un cambiamento ancora da raggiungere. Erano gli anni in cui in piazza si invocava la “fantasia al potere”, e in cui le minoranze esigevano una voce. Chi meglio del FUORI!, nella sua natura articolata, poteva essere pronto a raccogliere questa sollecitazione? Anche a costo di prendere una strada diversa, come succede nel 1976: da un lato chi sceglie la via dalla politica, dall’altro lɜ attivistɜ,  che per farla scelgono l’arte e una visione più radicale. Questɜ vogliono dare forma a una società nuova, in cui trovino spazio sia la liberazione sessuale che una nuova concezione dei generi, un nuovo mondo per tutte le minoranze, con al centro un nuovo strumento politico: il proprio corpo, come insegnavano in quegli anni le femministe. 

Mario Savio, all’università di Berkeley in California, diceva: “Il corpo è l’unica arma rivoluzionaria che dovete sapere di avere” a Milano un altro Mario, Mieli, gli farà eco così: “Il corpo deve diventare luogo e mezzo di conoscenza e di evoluzione personale e di gruppo. L’essere umano è potenzialmente libero, ma poi l’educazione, la famiglia, l’ambiente lo condizionano, e solo attraverso il corpo possiamo riconquistare la nostra libertà e dunque lottare anche per la libertà altrui”.

Il giovane artista e filosofo milanese è una figura centrale per riflettere sul rapporto tra corpo e militanza, e – di conseguenza – tra militanza e rappresentazione, e quindi teatro. Ma è interessante anche per un altro motivo: la sua riflessione non coinvolge soltanto la sfera della sessualità, ma anche quella del concetto di genere; due discorsi, in quegli anni, ben difficili da scindere. Oggi si scrive molto di storia del movimento omosessuale ma non abbastanza del dell’apporto che in quegli anni il movimento ha dato sulla tematica del genere, su come lo ha inteso e soprattutto sul modo in cui si interpretano i ruoli di genere. Lo ha fatto, non a caso, utilizzando due concetti puramente teatrali. Negli anni Settanta infatti una parte del movimento omosessuale ha introdotto una concezione rivoluzionaria del genere, riconoscendo quella che oggi chiamiamo ruolizzazione. Così facendo ha finito per scontrarsi sia con i movimenti femministi, che in quella fase avevano bisogno di separare e distinguere con nettezza chi fosse o meno donna, quanto con i partiti  (comunisti e della cosiddetta sinistra extraparlamentare) che avevano bisogno di mettere da parte l’individuo e preferivano il concetto di classe, da mettere in scena con un corpo monolitico, potente, simbolicamente virile.

 Anche la dialettica politica, in quegli anni era una sorta di messa in scena di corpi, e stabilire di quale genere fossero e con quali confini non era una faccenda soltanto simbolica. Siamo ancora lontani dalla teoria queer degli anni Novanta, ma a ben guardare qui se ne gettano le basi: parlando di ruoli, si comincia a uscire dal binarismo di genere, partendo anche da gesti apparentemente simbolici ma per allora dirompenti come parlare di sé al femminile o vestire abiti del genere opposto. L’appoggio teorico lo dà ancora Mieli, che scrive di transessualità originaria. Questo termine (che oggi è ovviamente improprio) per lui suggerisce l’idea che ogni individuo porti in sé un’identità maschile e femminile insieme, e che libertà significhi accoglierli entrambi. Un sovvertimento che, quando incontra la spinta creativa che gli anni Settanta portano con sé, non ha potuto che realizzarsi artisticamente, in particolare nel teatro, “incontro tra un pubblico vivente e un attore altrettanto vivente” come ha detto l’attrice Lella Costa. 

Gli anni Settanta sono infatti un decennio pieno, in tutte le forme d’arte, dell’ambiguità di genere: è provocatoria, e viene usata per questo, intrattiene, diverte e fa discutere. Molti però si travestono solo sul palco, e così il potere rivoluzionario di questa pratica si depotenzia e resta spesso poco più di un gioco. C’è chi si traveste per ridere, e rifiuta apertamente di fare della performance un gesto politico. Ci sono però collettivi militanti che invece fanno teatro e performance en travesti come gesto militante. Se il semplice intrattenimento ha portato il tema del genere a un pubblico di massa, la sua pratica militante ha generato un cambiamento nella sua percezione, e non si poteva uscire dal teatro esclusivamente divertiti, bisognava confrontarsi con un’altra parte di sé. 

Collettivo teatrale Nostra Signora dei Fiori

Per questo nasce quella che è stata chiamata avanguardia del teatro omosessuale, una galassia variegata ma con alcuni punti in comune: una scrittura a più mani, piena di improvvisazione e ricorso al proprio vissuto personale, ma anche a una cronica istabilità. Spesso le compagnie durano il tempo di poche repliche e se qualcuno sente di avere qualcosa da dire diventa attore per il tempo che serve, anche per questo motivo si tratta di esperienze performative rimaste per la stragrande maggioranza dei casi del tutto marginali, e l’archivio del Cassero è uno dei pochi a tenerne traccia. Negli anni Settanta è soprattutto a Milano che questa avanguardia trova la sua più articolata e nota espressione: nei Collettivi Omosessuali Milanesi nasce il Collettivo Nostra Signora dei Fiori, il cui primo lavoro è probabilmente la pièce più nota del teatro omosessuale, La Traviata Norma. Anche questa compagnia ha però breve durata, ma lascia il posto in brevissimo tempo al Collettivo Immondella Elusivi. Anima di entrambi i collettivi fu Mario Mieli, che accosta – nella sua breve e intensa vita – all’approfondimento filosofico i ruoli di poeta, attore e drammaturgo, prima con i collettivi e poi da solo, parallelamente a un’attività performativa diffusa.

L’esempio milanese viene però raccolto da altre realtà, soprattutto dai Collettivi Omosessuali Padani di Parma, dai quali negli anni Settanta sorge il Collettivo Teatrale Trousses Merletti Cappuccini e Cappelliere, noto come KTTMC&C. 

Di natura diversa e legata alla peculiare tradizione napoletana dei femminielli è il lavoro di Ciro Cascina, mentre più episodiche ma comunque significative sono le esperienze di alcuni spettacoli messi in scena da compagnie di Torino e Roma. Si tratta però soltanto di una parte di una galassia di piccole compagnie sulle cui vicende non esistono trattazioni organiche, che però sono tenute insieme dalle caratteristiche di cui sopra, non è così per i più noti attori en travesti, da Leopoldo Mastelloni ai Legnanesi passando per Dominot. Ma anche Paolo Poli che pure non nega la propria omosessualità e assume alcuni degli atteggiamenti di cui sopra, come l’identificazione al femminile; tuttavia anche lui si traveste solo come atto scenico, definendo anzi alcune delle messe in scena dei collettivi “amabili cortilate”, che hanno però molti padri tra l’Europa e gli Stati Uniti. Da citare è in particolare il surreale lavoro del drammaturgo e disegnatore franco argentino Raùl Damonte, noto come Copi, la cui opera più celebre, L’omosessuale o della difficoltà di esprimersi, è oggetto di una riscrittura da parte del KTTMC & C.

In Italia questo esempio arriva anche in strada, sulla scia del Living Theatre, arrivato in quegli anni nel suo esilio europeo. 

Ma non basta: i performer mettono in scena se stessi costruendo un personaggio di sé appartenente al sesso opposto. Lo fa Mieli, ma accade anche in ognuna delle manifestazioni di piazza, come durante il celebre campeggio calabrese in cui Ciro Cascina si trasforma nella Duchessa Romanov. Si vuole dimostrare che il confine tra performance e vita quotidiana è arbitrario, ed è nella vita quotidiana che la società costringe molti a recitare “esibizioni di genere” (Goffmann usa, non a caso proprio queste parole) per non sembrare pazzɜ, ruolo che lɜ teatrantɜ omosessuali si attribuiscono volentieri. Sono stati proprio lɜ performer omosessuali a mostrare che può esistere un’altra società, fatta di corpi liberi non più ingabbiati in due generi. Così, prima che gli anni Ottanta della società da bere facciano venir meno la volontà radicale e rivoluzionaria, fanno diventare palcoscenico (dove tutto questo è già possibile) l’intero mondo, e scardinano il confine tra verità e rappresentazione. Perché, come fa dire il padre di questa riflessione Jean Genet a Irma nel Balcone, “Voi ora dovete andare a casa, dove tutto – statene certi – sarà ancora più falso di come è qui” 

2 Jean Genet, Tutto il teatro, Milano, Il Saggiatore, 1968.

Immagine nel testo da asteriscoedizioni.com