Si sa, l’eterocispatriarcato complica la vita a tuttә, chi più chi meno. Ma arrivare a ostacolare l’uso della lingua è proprio un altro livello e i giapponesi ne sanno qualcosa.
Il problema della scrittura in Giappone nacque quando, nel V-VI secolo, l’élite decise di adottare gli ideogrammi cinesi, o kanji, per dare una dimensione scritta alla lingua nativa. Ma adattare il giapponese al cinese si rivelò più complesso del previsto – la prima è una lingua agglutinante e atonale, la seconda isolante e atonale, in poche parole: completamente diverse – e la soluzione più ovvia per i letterati fu di usare alcuni kanji per il loro significato in cinese leggendoli in giapponese, mentre altri solo per il loro suono cinese, e non per il significato. Il risultato? Era difficile per tuttә riuscire a capire quel che si scriveva.
Così, mentre il cinese veniva elevato a lingua letteraria, il giapponese venne utilizzato per le cose private e dunque principalmente dalle donne, escluse dal potere. Fortunatamente dalla loro mano nacquero i kana, due alfabeti sillabici utilizzati per esprimere solamente i suoni, per evitare le incomprensioni nella lettura dei kanji. Le cortigiane non si limitarono a perfezionare il metodo di scrittura, ma resero la lingua giapponese degna di qualità artistica al pari del cinese. Durante l’epoca Heian (794-1185) la letteratura giapponese ebbe il periodo di massimo splendore grazie ai racconti e alle poesie delle cortigiane imperiali, tra cui Murasaki Shikibu, autrice del classico dei classici giapponesi, il Genji monogatari.
Illustrazione di Claudia Tarabella
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