BOLOGNA CITTÀ APERTA?

di Nicola Riva

Nell’estate del 2013 trascorsi le mie vacanze ad Amsterdam. Vi arrivai la settimana prima del Pride e fui accolto da una stazione ferroviaria interamente agghindata con i colori dell’arcobaleno. Una simile accoglienza avevo ricevuto un paio di anni prima a Manchester. In quel caso si trattava di una settimana dopo il pride cittadino e, ancora, dai palazzi delle istituzioni e dell’Università sventolavano numerose bandiere rainbow. Questi sono solo due esempi di un fenomeno più generale: la partecipazione attiva delle istituzioni alle manifestazioni dell’orgoglio LGBT+. Una realtà in molti Paesi occidentali. E in Italia? E a Bologna? Qualcuno ha mai visto sventolare una bandiera arcobaleno da Palazzo d’Accursio?

Viviamo in quella che aveva e forse ha ancora la fama d’essere la città più LGBT-friendly d’Italia. Ma si tratta di una fama meritata? E se lo è, in che misura ciò è merito di chi governa la città? L’atteggiamento che il Comune di Bologna ha assunto nei confronti delle istanze LGBT+ negli ultimi tempi è caratterizzato da una certa schizofrenia. Molto di buono è stato fatto. Grazie anche al sostegno del Comune il MIT ha avuto una nuova sede, ha aperto il BLQ Checkpoint gestito da Plus e molti sforzi sono stati fatti per rispondere alle esigenze quotidiane di famiglie che si scontrano con una burocrazia che ancora non le riconosce come tali. Il Sindaco si è poi speso molto nella battaglia per il riconoscimento giuridico delle nostre relazioni, arrivando a sfidare il governo nazionale in occasione della registrazione dei matrimoni contratti all’estero. Tutt’altro atteggiamento è stato assunto, invece, nei confronti di ciò che può essere considerato espressione di una cultura critica, di una controcultura, LGBT+: si va dalla censura farcita di minacce in occasione dell’affaire “Venerdì credici” fino al modo, ancor più grave, con cui è stata gestita, nel corso degli anni, la vicenda di Atlantide. Oggetto di critica non sono stati gli spazi preposti alla fornitura di servizi alle persone, ma quelli che sembrano opporre una qualche resistenza all’imperativo alla normalizzazione oggi dominante e si ostinano a gettare uno sguardo critico sulle tradizioni e sui valori maggioritari.

C’è stato un tempo in cui il Comune di Bologna è stato all’avanguardia nella promozione dell’inclusione delle persone LGBT+ e nella promozione della loro cultura. Si era tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, quando ancora il matrimonio egalitario non solo non era nell’agenda politica, ma neppure nei nostri sogni (che erano ben più ambiziosi). Allora, la città di Bologna, prima in Italia, concesse uno spazio pubblico ad un’associazione LGBT+ che, guarda caso, assunse per l’occasione il nome di “Circolo 28 Giugno” e che, in seguito, avrebbe assunto il nome di “Cassero”. In quel frangente un’amministrazione cittadina coraggiosa e previdente non ebbe timore di contrapporsi alla Curia. Seppe mostrarsi dotata di una visione politica coerente con i valori di una sinistra laica e anche un po’ – merito questo della contestazione giovanile del decennio precedente – libertaria. L’impressione è che da allora non si siano fatti molti passi avanti. L’esistenza stessa di quegli spazi che hanno fatto la storia di questa città e ne sono un simbolo riconosciuto è stata più volte messa in questione da una parte della stessa maggioranza al governo della città. Sembra che, mentre altre (poche) città italiane l’hanno raggiunta e forse superata, Bologna abbia rinunciato al proprio ruolo guida, che continui a godere dei frutti di semi piantati molto tempo fa ma abbia perso la capacità di guardare lontano.

Sarebbe bello se chi governa o si candida a governare la città fosse in grado di mostrarsi orgoglioso della sua comunità LGBT+. Le occasioni non mancheranno. Il Pride è alle porte e prima di allora c’è la giornata contro l’omo-bi-transfobia. Una bandiera costa poco e vale molto.

pubblicato sul numero 15 della Falla – maggio 2016