LA CENSURA DEGLI ARTICOLI DEI CONTENUTI LGBT+ IN RETE AI MOTORI DI RICERCA

È mattina, sorseggi il caffè e dopo aver letto le ultime dichiarazioni razziste del tuo Ministro degli Interni decidi di digitare alcune parole a caso a caccia di notizie. Tipo lesbica, trans, gay, LGBT+. Succede che, se ieri dopo il primo risultato proposto da Wikipedia riuscivi trovare quello di cui avevi bisogno, oggi la risposta a tutte le tue ricerche è il codice errore 404, accompagnato dal messaggio: «Ciò che cerchi non è stato trovato sui nostri server. È tutto quello che sappiamo».  Miliardi di informazioni, testimonianze e memorie rimosse con un semplice click.

Se l’idea può apparire surreale o di difficile realizzazione in realtà non lo è. A dircelo è il CitizenLab,  un gruppo di ricerca interdisciplinare canadese che si occupa dell’intersezione tra internet, la sicurezza globale e i diritti umani, che lo scorso anno ha dedicato un report all’azienda canadese Netsweeper, specializzata nella censura digitale.

Lo studio condotto su questa azienda ha dimostrato come la stessa abbia prodotto dei sistemi di filtraggio che schermano in modo parziale o totale intere categorie dai risultati di ricerca. Tra le voci bannabili quali “politica”, “pornografica” o “estero” è possibile rintracciare quella denominata “Stili di vita alternativi” contenente tutte le varie soggettività LGBT+. Il dato rilevante di questo filtro famiglia 2.0 non è tanto la sua applicazione su di un singolo dispositivo, quanto la possibilità di negare a utenti di nazioni intere l’accesso a determinati risultati di ricerca spuntando semplicemente una voce dal menu. Attualmente, stando allo studio di CitizenLab, sono 30 i Paesi che a diversi gradi ricorrono ai sistemi prodotti da questa compagnia: dal Canada all’Arabia Saudita, dove le persone LGBT+ sono perseguitate legalmente.

Atteggiamenti ancora più repressivi vengono invece adottati da Paesi come la Russia o la Cina, che hanno fatto della censura uno dei principali strumenti di controllo della popolazione. Oltre al tristemente noto primo caso, basti solo pensare alle notizie inerenti alla situazione cecena per capire quanto il fenomeno sia forte nei confronti di tutto ciò che è queer, negli ultimi anni anche il Paese del Dragone ha deciso di inasprire le leggi volte a criminalizzare la diffusione di informazioni inerenti alle tematiche LGBT+. Infatti, se da un lato nel 1997 si riconosceva legalmente la possibilità di avere relazioni omosessuali nel Paese, passando prima per la radio e la televisione nel 2015, nel 2016 il governo è arrivato a imporre a tutte le piattaforme online la rimozione di video che avessero dei riferimenti a questi temi.

Ultimo di questa lunga serie di provvedimenti è quanto accaduto al social network Sina Weibo, che lo scorso anno, dopo aver annunciato la rimozione di ogni riferimento all’omosessualità dalla propria piattaforma, aveva eliminato più di 50mila contenuti nelle prime tre ore dalla messa al bando.

Ambiguo e spesso contraddittorio, invece, è l’approccio che colossi come Twitter o i social network di casa Zuckerberg hanno nei confronti della censura o della rimozione di contenuti. Se le loro politiche di censura in linea teorica prevederebbero la realizzazione di un ambiente privo di discriminazioni, criminalità e odio, i mezzi e gli algoritmi adottati sono spesso controproducenti – senza contare la discutibilità ipocrita nel pretendere di accostare il concetto di censura a quello di safe space.

Tanto che, alla fine, hanno più probabilità di eliminare un’immagine della Venere di Willendorf, o un seno scoperto nella foto di un Pride, che una dichiarazione fascista divenuta trend.  

Pubblicato sul numero 46 della Falla, giugno 2019