Chi ha il coraggio di dire mestruazioni? Di pronunciarlo ad alta voce, magari scandendo le sillabe. Quelle che abbiamo ogni mese non sono cose, sono mestruazioni; non sono blu, né verdi, né di qualsiasi altro colore usi la pubblicità. Gli assorbenti non sono pannolini, come li chiamano ancora le nostre nonne. In alcune parti del mondo, come in Giappone, al supermercato vengono nascosti in un sacchetto separato dal resto della spesa. E quante volte, a scuola o al lavoro, si fa di tutto per non farli vedere nello zaino o in borsa? In quanti si sentono legittimati a farci notare quando ci sporchiamo di sangue, come se dovessimo vergognarci di questa grave disattenzione? Le mestruazioni ci rendono sporche, impure, tanto immonde da essere infettive. Nel Levitico la donna è descritta come impura fino al settimo giorno dopo la fine delle mestruazioni; è tanto impura da contagiare chiunque e qualunque cosa tocchi, dagli uomini all’acqua.

Non serve, però, andare così indietro: molte persone pensano ancora di non poter fare sesso o non potersi lavare i capelli, o portano avanti delle idee nate giusto un paio di millenni fa, con Plinio il Vecchio, secondo cui le donne mestruate fanno inacidire il mosto e seccare le piante. In Nepal si pratica ancora la chaupadi, che prescrive la reclusione pur di non contaminare gli uomini e la casa. In India, gran parte delle ragazze smette di andare a scuola una volta raggiunta la pubertà: gli assorbenti costano troppo e non hanno luoghi in cui cambiarsi senza essere sotto gli occhi di tutti.

Marinella Manicardi li chiama Corpi impuri: non è questa presunta impurità il motivo per cui il sangue si può rappresentare in tv o portare in processione, ma quello mestruale non si può neanche nominare? È il silenzio a far diffondere ignoranza e repulsione, rimaste apparentemente immutate per generazioni. È il silenzio che permette alla maggior parte delle persone, spesso anche a chi ha le mestruazioni, di viverle con inconsapevolezza e senza informazioni adeguate. Sembra che nessuna delle eroine di film e libri abbia le mestruazioni: non se ne parla mai. Le poche, pochissime, volte che lo si fa, è per trasformarle in una battuta.

C’è poi il fenomeno della period poverty: i prodotti mestruali sono considerati un lusso e tassati come tale in buona parte del mondo, Italia compresa, con l’Iva al 22%. Da una parte c’è la povertà descritta in Period: End of Sentence di Rayka Zehtabchi, che ha vinto l’Oscar 2019 per miglior cortometraggio documentario: racconta di un gruppo di donne indiane che produce e vende assorbenti a basso costo, spesso affrontando le occhiatacce dei negozianti e di donne che non sanno neanche cosa significhi la parola assorbente. Dall’altra, c’è un tipo di povertà più nascosto, come quella rilevata da una ricerca di Plan International Uk, secondo cui una studentessa su 10 non può permettersi i prodotti mestruali. Esistono diverse associazioni che propongono di rendere gratuiti o meno costosi questi prodotti, specialmente in luoghi come università e uffici, ma nella maggior parte dei casi questa necessità viene percepita come un peso o una richiesta fuori dal normale.

Sono tante le realtà impegnate a modificare lo status quo sulle mestruazioni, dalla pubblicazione di libri e fumetti d’informazione, alle campagne per rendere accessibili i prodotti mestruali o per accrescere la consapevolezza sul fatto che le mestruazioni non interessino solo le donne cisgender. I passi che si compiono sono lenti, ma sempre più rilevanti. Di rivoluzione mestruale si è cominciato a parlare negli anni ‘70, ma siamo ancora in un mondo in cui il sangue mestruale continua a non essere ben accetto in televisione e sui social: Instagram ha rimosso più volte, e continua a rimuovere, foto in cui il sangue è visibile. La rivoluzione dovrebbe ripartire dal chiamare le cose con il proprio nome, per toglierle dal silenzio e dar loro una dignità tale da poter dire mestruazioni senza dover abbassare la voce.

pubblicato sul numero 45 della Falla, maggio 2019