Reduce dai premi conquistati durante la 47esima edizione del Festival di Rotterdam, il lungometraggio Nina sbarca al festival di cinema lesbico bolognese Some Prefer Cake.
Pellicola d’esordio della regista polacca Olga Chajdas, questo film potrebbe essere un prodotto confezionato che celebra temi caldi e attuali, come il coming out e la gestazione per altri; eppure, non è nulla di tutto questo.
Sullo sfondo di una cattolicissima (ma forse non poi troppo) Polonia e in una Varsavia più parigina che sovietica, la protagonista Nina (Julia Kijowska) cita diversi autori francesi davanti a una platea di studenti distratti, fino a soffermarsi sul significato di mépris, quel sentimento che rese famosi Brigitte Bardot e Jean-Luc Godard.
Come senso di risoluta, passionale o commiserante svalutazione nei confronti di persone o cose considerate indegne o inferiori, il disprezzo sembra essere il leitmotiv che accompagna Nina nelle prime fasi del film; lo prova verso il marito, conosciuto troppo presto, lo sente verso le sorelle, più a loro agio nel vivere i costrutti sociali, lo ha verso sé stessa, per il figlio che non riesce ad avere e per gli aspetti di sé che non riesce a capire.
Al disprezzo si associa un isolamento latente, che colpisce tutti i personaggi coinvolti e viene enfatizzato dalla scelta di compiere numerose inquadrature singole; ed è proprio nel mezzo di una moltitudine di solitudini che Nina si scontra con Magda (Eliza Rycembel): giovane donna omosessuale che irrompe casualmente nella sua vita. Guidate dal marito di Nina, che vede in Magda una perfetta candidata madre per la sua prole, le due si avvicinano lentamente, specchiandosi vicendevolmente attraverso lunghi silenzi e frasi lasciate a metà.
Da qui inizia un processo di liberazione che porta la protagonista a interrogarsi sulla propria identità e a toccarsi fisicamente e mentalmente per conoscersi e riconoscersi. In tal modo, cadono a poco a poco i tabù religiosi, sessuali e infine genitoriali.
La ricerca dell’identità si snocciola attraverso luoghi che fungono da rifugio (anche metaforico) dal freddo che attanaglia le vite in generale: i salotti, i bar lesbici, le classi scolastiche, le avventure di una sola notte, il grembo di un’altra donna, persino un’installazione di arte rossa e calda, che assomiglia a un utero accogliente, diventano spazi in cui fermarsi e meditare su chi si è e su chi si voglia effettivamente essere, protetti dal gelo pungente dell’esterno.
Nina s’innamora di Magda, sperimentando un risveglio sessuale, mentre la giovane perde irrimediabilmente insieme alla sua solitudine anche la propria autonomia, a causa del doppio smacco del vero amore e della gravidanza.
Nello svilupparsi della storia, il mondo queer si limita a fare da cornice spettacolare e scenografica; Nina non si scopre come donna lesbica o bisessuale, ma preferisce definirsi “Magda-sessuale”, mentre il tema della gestazione non viene nemmeno lontanamente trattato in termini politici.
I toni della vicenda sono volutamente cupi e sconnessi, marcati dalla scelta del fotografo Tomasz Naumiuk di mantenere bassissimi i livelli di luce, come se ci si trovasse di fronte a un inverno irriducibile; molte le domande che rimangono senza risposta, parecchi i passaggi che non vengono chiariti fino in fondo.
E in effetti, tale logica non può che collimare con il racconto della formazione di un’identità: una narrazione non lineare, continuamente in itinere, mai risolta interamente ma spunto continuo per nuove evoluzioni, scoperte e “liberazioni”.
Foto: Some Prefer Cake
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