In questi mesi, a Bologna, il discorso sulla distribuzione delle pipe per fumare crack alle persone che usano questa sostanza da parte dei servizi di riduzione del danno[1] è sulla bocca di tuttǝ. Non voglio parlare nello specifico della questione, se non per sottolineare che, da professionista sanitario, penso sia fondamentale ed etico tutelare la salute di tutte le persone, anche di chi usa sostanze, e che la letteratura scientifica supporta questa pratica. Le polemiche che dipingono le strategie e le pratiche di RdD come “induzione al consumo” e “danno erariale” non hanno alcuna base scientifica, né tantomeno economica, visto che investire in strumenti RdD ha proprio tra i suoi obiettivi anche quello di limitare la ripercussione sul sistema sanitario di patologie infettive o complicanze di salute gravi, che in termini di costi sono sicuramente più impattanti delle pipe. Sembra di essere tornatǝ alle polemiche che più di 30 anni fa accompagnarono la distribuzione di siringhe sterili a chi consumava eroina: sappiamo bene com’è finita, visto che in tutta Italia, pur se a macchia di leopardo, esistono programmi di scambio siringhe e le riviste scientifiche sono piene di articoli che li supportano. Detto fuori dai denti, chiunque parli ancora di “induzione al consumo”, penso voglia proporre una narrazione distorta, alla cui base purtroppo c’è l’assunto che non tutte le persone hanno lo stesso diritto alla tutela della propria salute.
Lasciando ai margini gli aspetti tecnici della RdD, il ruolo dei servizi sanitari, i risvolti economici e anche le evidenze scientifiche, vorrei riportare alla luce alcuni elementi che hanno accompagnato la RdD dalla sua nascita dal basso: la tutela dei diritti delle persone, soprattutto quelle marginalizzate, la difesa del loro diritto alla salute e la cura della comunità. Questi elementi sono come fili che, intrecciandosi, costituiscono il tessuto di quella che oggi è anche una strategia e una politica sanitaria, con una base scientifica consolidata. Voglio riportare in primo piano questi elementi spesso in background, perché mi piacerebbe anche riflettere su quanto la comunità LGBTIQAP+, la mia comunità, sia ingaggiata a difendere il proprio diritto alla salute e a prendersi cura delle persone che la compongono.
È presente per noi persone LGBTIQAP+ un senso comunitario rispetto alla nostra salute? Quanto davvero siamo dispostǝ ad attivarci per diffondere strategie che ci aiutino a proteggere il nostro benessere psicologico, emotivo, fisico, sessuale? Ci siamo allontanatǝ dalla spinta a prenderci cura di noi stessǝ, anche attraverso le pratiche RdD, che ci aveva fatto reagire alla diffusione dell’HIV con tutte le sue conseguenze, non solo sanitarie? Prendendo come esempio la diffusione del chemsex nella nostra comunità o, in maniera più estesa, l’uso di sostanze anche al di fuori dei contesti sessuali, quanto ci stiamo interessando di diffondere la consapevolezza dei possibili rischi del consumo e di tutelare la salute della nostra comunità? Penso che le persone abbiano il diritto anche di scegliere di usare sostanze, che sia per affermare la propria identità/sessualità, per riappropriarsi di una socialità vissuta diversamente, per affrontare le pressioni sociali o per gestire lo stress. Questi comportamenti non sono, però, mai a rischio zero. Stiamo quindi difendendo, oltre a questo diritto, anche la capacità di affrontarne le possibili conseguenze?
(Un ringraziamento speciale a Simone Toneatti per i suoi input nella scrittura di questo articolo)
[1] Da questo punto in poi “riduzione del danno” verrà abbreviata con “RdD”.
Immagine in evidenza: vdnews.it

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