Il 16 luglio l’azienda Valve Corporation ha modificato le linee guida di pubblicazione su Steam, il suo negozio virtuale di videogiochi. Di conseguenza, numerosi giochi rientranti nella categoria Not safe for work (i giochi zozzoni, inutile girarci attorno, che fino a quel momento erano accessibili con opportune restrizioni) sono stati rimossi dalla piattaforma e d’ora in poi, citando la clausola aggiunta nelle suddette linee guida, sarà vietato pubblicare contenuti che possano «violare le regole e gli standard stabiliti dai processori di pagamento, dalle banche, dai circuiti di carte o dai provider di servizi internet».

Il 24 dello stesso mese la manovra di Valve è stata imitata da Itch.io, sito per la pubblicazione di contenuti mediali indipendenti, che ha agito in maniera ancora più diretta derubricando temporaneamente tutti i giochi etichettati “per adulti” in vista di più approfondite indagini su ciascuno di essi, al fine di tutelare, secondo il proprietario Leaf Corcoran, i rapporti del sito con i processori di pagamento.

Emerge chiaramente in entrambi i casi che tali azioni sono state implementate su pressione di enti di pagamento quali Visa e Mastercard, alla stessa maniera di come questi enti di pagamento cinque anni fa hanno fatto pressione su Aylo (all’epoca dei fatti chiamata MindGeek) per ripulire Pornhub dal contenuto amatoriale prodotto o pubblicato in maniera non consensuale. Una storia che è finita alla «ammazzateli tutti, Dio riconoscerà i suoi», per intenderci; e che, considerati avvenimenti più recenti, è stata un’azione tutto sommato legittima.

Ma tra questi ultimi casi citati e i due al centro di questo articolo ci sono un paio di differenze da sottolineare, che esulano dalla natura fittizia dei contenuti mediali di Steam e Itch.io: innanzitutto, Valve ha solo fatto un’aggiunta a una serie di quattordici punti che già limitavano, certo in maniera inefficace, quanto poteva essere messo in vendita sulla sua piattaforma. In secondo luogo, mentre nel caso Pornhub a scoperchiare il vaso di Pandora fu un’inchiesta del New York Times, in questo a smuovere le coscienze dei circuiti finanziari è stata una lettera aperta pubblicata l’11 luglio dall’organizzazione australiana Collective Shout, un collettivo di attivistɘ fondato nel 2009 da Melinda Tankard Reist con l’obiettivo di combattere l’oggettificazione della donna e la sessualizzazione femminile in contenuti mediali, pubblicitari e culturali (e che ora, tra l’altro, si sta occupando di Roblox e dei suoi problemi di pedofilia e adescamento di minori), in collaborazione con altre organizzazioni con simili obiettivi, tra cui gli statunitensi National Center on Sexual Exploitation ed Exodus Cry, e il britannico FiLiA. Si tratta in questi ultimi casi, rispettivamente, di una organizzazione conservatrice di estrema destra, una no-profit cristiana anti-LGBTIA+ e antiabortista e un ente di beneficenza TERF.

Anche Collective Shout e la sua fondatrice in particolare hanno ricevuto accuse di avere posizioni trans/sex work escludenti e di essere anti-LGBTQIA+, ma risultano affermazioni più difficili da verificare. Più facile è concludere che per l’organizzazione australiana qualsiasi rappresentazione di violenza o sessualizzazione è negativa a prescindere dal contesto in cui tale rappresentazione avviene, e che sulla sua posizione riguardo il sex working si possa a lungo discutere.

Ciò detto, è inutile negare che le norme finora implementate su Steam e altre piattaforme similari siano state almeno in alcuni casi facilmente aggirabili, e che determinati titoli eliminati con gli eventi di luglio fossero problematici se non al limite (di qua o di là) del legale. Però il timore che il meccanismo sfruttato per risolvere il problema possa essere implementato di nuovo per tematiche a noi più vicine, o limitare effettivamente la libertà artistica, un po’ resta.

E, soprattutto, quanto accaduto mi spinge a dubitare, almeno un minimo, di chi dice che «pecunia non olet».

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