La lotta paga, sempre, non solo quando si vedono i risultati. Ma la lotta si paga, anche. Si paga in termini di stanchezza, di frustrazione, e di carico mentale.
Il Pride è tutto l’anno, lo sappiamo benissimo, ma che significa? Significa forse che non ci dobbiamo fermare mai? Che dobbiamo fermarci a riprendere giusto il fiato necessario per continuare a correre? Che non possiamo farci una vacanza e non pensare a niente per un po’?
C’è un pensiero diffuso, che impariamo già durante l’infanzia: solo il tempo speso in attività ha valore, e tutto l’altro, passato a riposarsi e a non fare niente di utile, non ne ha alcuno se non, nel migliore dei casi, quello di prepararsi a rimettersi in moto. Anche chi fa attivismo sente questa pressione, caratteristica della cosiddetta grind culture. Corollario di un approccio capitalistico alla vita, questa cultura – che potremmo dire della produttività ininterrotta – giudica le persone in funzione del modo in cui impiegano il loro tempo, e l’unico modo giusto per impiegarlo è lavorare, produrre, generare profitto (che raramente è il profitto della persona che lavora, lo diciamo per inciso).
Questa mentalità ci induce a spingere i nostri corpi e le nostre facoltà mentali fino allo stremo, e non è un caso che ci siano sempre più persone in burnout, anche tra chi fa attivismo (che si configura spesso come un vero e proprio lavoro). È un approccio talmente radicato che quando ci fermiamo, quando ci stendiamo in spiaggia semplicemente a prendere il sole, dopo poco cominciamo a sentirci in colpa. Succede anche a voi di mettervi sul divano a guardare nel vuoto e non riuscire ad alzarvi per ore, perché avete bisogno di stare semplicemente così, stare, senza nient’altro, e sentire invece uno strano disagio? Quella voce petulante che dice «Stai perdendo tempo»?

Vorremmo dire che non bisogna ascoltarla, ma non è così: bisogna ascoltarla anche se non è la nostra. Se l’organizzazione della società contemporanea capitalizza anche il nostro tempo libero, vedendolo solo nel binarismo tempo perso/tempo ben investito, noi sappiamo che esiste un’altra prospettiva. Chi fa attivismo farebbe bene a indagarla: finiti gli impegni, iniziato il riposo, quel tempo che rimane nelle nostre mani è tempo di libertà, cui abbiamo pienamente diritto, perché è allora che possiamo immaginare con calma, riflettere, rielaborare, costruirci e ricostruirci, in alcuni casi leccarci le ferite, in altri provare la soddisfazione per qualcosa di buono che abbiamo ottenuto.
E vorremmo concludere questa riflessione, questo invito ad avere cura di sé, del proprio riposo e di quello altrui, con le parole di Tricia Hersey, con cui concordiamo pienamente quando dice che ci meritiamo il riposo per il solo fatto di esistere: il riposo “non dobbiamo guadagnarcelo. Non è un lusso, un privilegio o un bonus che ci dobbiamo aspettare dopo il burnout. Sento tanta gente che reitera il mito secondo cui il riposo sarebbe un privilegio, e capisco quest’idea, ma continuo a essere profondamente in disaccordo. Non lo è, perché i nostri corpi sono ancora di nostra proprietà, al di là di ciò che ci insegnano i sistemi vigenti».
Che i vostri corpi siano liberi di muoversi, di riposarsi, di godere del loro tempo libero.
E buone vacanze, senza sensi di colpa!
(Tricia Hersey, Riposare è resistere. Un manifesto, Atlantide, Roma, 2024)
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