Nel 2009 Chimamanda Ngozi Adichie, in The danger of a single story, ci metteva in guardia su quello che lei chiama il «pericolo di una storia unica». Tutti noi, ci dice, siamo vulnerabili di fronte a esso poiché c’è il rischio che le narrazioni che riceviamo e quelle che gli altri fanno di noi diventino in qualche modo la nostra storia finale. Avere la possibilità di costruire l’identità di qualcun altro è dunque una questione di potere, esercitato su alcuni soggetti in modo maggiore rispetto ad altri. In questo senso l’autorappresentazione e la rappresentazione sono una pratica di resistenza, un esercizio nelle mani delle individualità marginalizzate e, in questo caso, colonizzate. La fotografia di Zanele Muholi rappresenta un tentativo di tracciare una storia cominciando in secondo luogo, ovvero creando un cortocircuito nella narrazione tale da permettere al sé di ridefinirsi, con tutta la potenza dell’imprevisto e del rimosso. 

Zanele Muholi nasce in Sudafrica nel 1972. La sua sensibilità artistica si sviluppa in un paese segnato dalla discriminazione razziale e dall’apartheid, concentrandosi proprio sul resoconto visivo dei soggetti razzializzati. Collabora inizialmente con Behind the mask, un archivio digitale queer utilizzato dall* attivist* sudafrican* con lo scopo di creare un safe place per la comunità e diffondere una traccia visuale della loro presenza. Il binomio di archivio e testimonianza si ritrova nel lavoro di Muholi, la quale nella serie di ritratti Faces and Phases raccoglie immagini di donne lesbiche africane. Nel farlo assicura loro uno spazio nell’immaginario collettivo, mettendolo però allo stesso tempo in discussione. I corpi neri si sottraggono allo sguardo etero e bianco, rivendicando un desiderio e una sua espressione indipendenti da esso. La sessualità lesbica nera è sempre stata patalogizzata e dunque sottratta dalla donna che al contrario la subisce continuamente in una sorta di violazione e stupro dell’anima e del corpo. I corpi fotografati da Muholi al contrario hanno una agency e interpellano lo spettatore, non solo sul contesto della fruizione, ma anche su quello della creazione. Il fatto che quelle persone siano reali, che le violenze omofobiche siano reali tanto quanto i segni che a volte riportano sui volti, anche questi reali, rende impossibile svincolarsi dal coinvolgimento. Nessuna estetizzazione può salvare da queste foto, nessuna astrazione dalla storia dietro ognuna. 

A lungo però nella storia la fotografia ha fornito un riparo dalla realtà, da ciò che di essa faceva paura, ovvero l’altro. È senza dubbio interessante capire come pratiche violente come la ricerca etnografica, l’archiviazione e la messa in mostra di corpi considerati mostruosi si trasformino diventando strumenti queer. 

L’antropologia nasce proprio dalle raccolte di tracce di altri esseri umani o, meglio, esseri umani altri rispetto all’uomo europeo prima e occidentale poi: attraverso questa minuziosa opera di misurazione e collezione il mondo poteva essere riportato a una dimensione di controllo. Alla stessa logica soggiacciono le esposizioni universali, a lungo un luogo in cui si sono ribadite le posizioni di ognunə: da una parte e dall’altra della gabbia, da una parte e dell’altra del mondo, da una parte e dell’altra dell’evoluzione, da una parte e dall’altra del desiderio, da una parte e dell’altra dell’obiettivo. 

Le opere di Zanele Muholi agitano poiché rinnegano questa dinamica. I corpi neri lesbici si espongono allo sguardo dell’uomo etero occidentale, ma con coraggio si liberano dall’obbligo del compiacerlo e rispondono invece a quello di occupare uno spazio in cui poter raccontare le loro, tante, storie.

Immagine in evidenza: brooklynmuseum.org