Guardando ai dati dell’Istituto Superiore della Sanità il 61% delle persone trans* non fa sport, dei numeri folli se consideriamo l’importanza che questo ha per la salute. Un’assenza che può essere spiegata attraverso più chiavi di lettura: a partire dalle difficoltà che possono esistere nell’intraprendere un percorso di affermazione di genere e dal carico emotivo che può portare con sé, così grande che pensare ad attività come lo sport non è una priorità. Poi c’è la paura – spesso fondata – di non trovare ambienti adatti. Del rapporto tra persone trans* e sport e di come questo si relazioni con la disabilità e la competizione abbiamo parlato con Valentina Petrillo, la prima atleta trans* a prendere parte alle Paralimpiadi, intervistata per noi da Chià Rinaldi.

Com’è andata a Parigi?

L’esperienza è stata fantastica, sono ancora emozionata, è trascorso poco tempo dalle Paralimpiadi. È stato sicuramente un momento importante per me e per la mia carriera sportiva, ma penso anche per la nostra comunità. È importante che venga fuori un messaggio unico e positivo: l’unicità sta nel fatto che un’atleta trans è riuscita a partecipare alle Paralimpiadi. Il messaggio forte è quello che stiamo rompendo con schemi precostituiti e stereotipati del passato.

Cosa è cambiato nella tua percezione tra Tokyo 2020, da cui sei stata esclusa, e Parigi 2024?

Da parte della Federazione non è assolutamente cambiato nulla, per Tokyo ho fatto tutto il percorso di raduni e di qualificazioni e ho fatto anche gli Europei Paralimpici. A Tokyo ci sono state due problematiche: la prima è che non ho conquistato lo slot diretto, cosa che invece ho fatto qui a Parigi vincendo i due bronzi ai mondiali. Lo slot non era “di Valentina”, ma salvo altre questioni o scelte tecniche… è prassi che venga assegnato a chi lo vince. Per Tokyo non avevo conquistato lo slot diretto, poi c’è stato il problema degli slot supplementari, ne è stato assegnato solo uno dal Comitato Paralimpico secondo i principi di redistribuzione ed era nella categoria maschile. A Parigi sono stati assegnati due posti in più per la categoria femminile, se fosse successo anche a Tokyo probabilmente avrei partecipato anche 3 anni fa, visto che ero la prima delle escluse. Poi c’è anche un’altra questione, cioè quella della riclassificazione: prima di partecipare a Tokyo sono stata riclassificata in base alle categorie funzionali, sono passata dalla T12 (ipovisione media) a T13 (ipovisione più leggera). Quando si cambia classificazione, decisione che viene presa da un equipe medica  internazionale, chiaramente cambiano anche avversariә e competizioni, quindi è probabile che ci fosse anche una scelta tecnica dietro. Se fossi rimasta in T12 magari avrei avuto più chance. Il supporto della Federazione però è rimasto invariato.

Che percezione hai avuto rispetto alla tua partecipazione? Com’è stata l’accoglienza?

È andata in maniera sorprendente, non me lo aspettavo neanch’io. Per esempio, temevo che allo stadio ci sarebbe stata solo un’esigua minoranza a fare il tifo per me, in realtà, soprattutto l’ultima sera, all’annuncio del mio nome davanti ai 90mila presenti c’è stato un boato. Di ritorno da Parigi anche la percezione della mia persona è notevolmente cambiata, il fatto che io abbia acquisito un po’ di notorietà ha costituito qualcosa di direttamente positivo per me… al mio paese chiunque sapeva che sarei andata a Parigi, mi stavano seguendo, ma in generale c’è stato un cambio di rotta, hanno dato un senso a quella persona che magari vedevano trafelata, sempre in autobus con le scarpe da ginnastica senza sapere cosa facesse. L’altra cosa sorprendente è che associandomi al mondo paralimpico e alla disabilità visiva, non sempre troppo visibile, adesso nei negozi mi aiutano e quindi non ho più bisogno di raccontare di me o di dire che sono ipovedente. Niente di tutto ciò era scontato, tutti i feedback che ho ricevuto sono stati assolutamente positivi, penso sia un messaggio importante per dare un po’ di forza a chi vive in un limbo. 

Rispetto alle altre atlete in gara che percezione hai avuto? Chiaramente alla luce del fatto che la competizione rende di per sé il clima teso.

Parliamo di una competizione, quindi sì, ci sono mille componenti, quando sei in call room hai altro a cui pensare ed è un momento che viene vissuto in maniera molto discrezionale, è un po’ difficile avere dei contatti. Però ho legato con la mia collega iraniana Hajar (Safarzadeh), anche se non potevamo parlare perché parlavamo lingue diverse, ho sentito una comunione di intenti. Eravamo due donne che forse correvano per lo stesso motivo, la libertà di esistere. Lei ha speso parole molto belle per me, ci siamo capite e ci siamo date una pacca sulla spalla. Io facevo il tifo per lei e lei faceva il tifo per me. Con le altre non ho avuto nessun tipo di contatto, nient’altro. È molto difficile creare dei rapporti in competizioni così importanti, non mi sento di attribuire la mancanza di creazione di legami ad altri fattori.

C’è una differenza per te tra l’ambiente che vivi nelle competizioni internazionali e in quelle nazionali?

Sì, c’è differenza perché in Italia mi conoscono, ci sono state molte più occasioni per conoscerci, sono stati organizzati dei momenti dalla Federazioni di divulgazione e di informazione, per cui sanno chi sono da anni ormai, e ho avuto modo di parlare con moltə direttamente. Quando hai l’occasione di comunicare, molti pregiudizi si smontano perché abbiamo tuttə dei preconcetti, ma quando si può dialogare direttamente e si viene a conoscenza della storia che c’è dietro una persona, a volte molte di queste reticenze cadono. Quello che è importante è la giusta informazione, è un auspicio che ho anche a livello internazionale, le federazioni dovrebbero organizzare dei momenti informativi spiegando perché una persona trans è lì. Quindi sì, direi che la conoscenza diretta ha smorzato le remore.

Alle Paralimpiadi, per assicurare l’equità delle competizioni esistono le categorie divise per genere, ma esiste anche una divisione basata su criteri complessi per calcolare il cosiddetto “vantaggio competitivo” e classificare l’atleta in una categoria piuttosto che in un’altra. Perché secondo te le Olimpiadi non provano a seguire gli stessi criteri per assicurare l’equità nel mondo dello sport d’élite, invece che discriminare sulla base del genere e ostruire chi fuoriesce da una femminilità occidentalmente canonica?

Perché ereditiamo una concezione maschile e maschilista della persona umana, diamo per scontato che nascere uomini sia un vantaggio, e non siamo pronti culturalmente a superare il binarismo di genere. Le Paralimpiadi hanno un’altra lente perché accolgono atletə che nel contesto sociale hanno già una prospettiva differente sui corpi e sulle identità.

C’è la lente della disabilità di mezzo. 

Esatto. Questo non vuol dire che noi siamo meno atletә… cito una frase che ho riportato anche nel mio libro e cioè che tra equità e inclusione nel mondo dello sport va privilegiata l’equità. Nel mondo paralimpico questo paradigma si ribalta, e tra inclusione ed equità si sceglie la prima, anche perché inclusione non vuol dire essere iniquә. La mia identità non può essere un motivo di esclusione. Ricordiamoci che ad oggi le persone trans nello Sport sono state estromesse ingiustificatamente, senza riscontro scientifico, anzi gli studi dimostrano uno svantaggio delle persone transgender… è un discorso strumentale. Quindi ad oggi le persone trans* non hanno accesso allo sport perché sono incluse solo se fanno percorsi di medicalizzazione in età preadolescenziale, e sappiamo bene che è praticamente impossibile.

Quindi il Comitato Olimpico continua ad ignorare che la realtà sia più complessa di così, a differenza di quello Paralimpico che ha abbracciato una realtà quantomeno più ampia nel classificare quelli che possono essere i presunti vantaggi competitivi. Lo Sport non paralimpico non si è posto il problema

È una questione di etica e di interessi, evidentemente non interessa anche da un punto di vista economico, non lo so in realtà… credo sia proprio un discorso culturale.

Imane Khelif, è una vicenda che ti ha colpito personalmente?

Mi ha fatto sicuramente riflettere la disinformazione di fondo per cui Imane è stata associata alle persone trans, c’è stata poi la dinamica accusatoria venuta anche dal nostro Paese. Quello che mi fa riflettere è che questo caso ha permesso di aprire alcune questioni inerenti al genere e all’intersessualità, le persone non sapevano di cosa si parlasse. Ha messo in luce che non si sa ancora molto di questi temi.

A che punto siamo rispetto all’accoglienza delle persone trans* nel mondo dello sport professionistico? Ti è capitato di incontrare altre persone trans che gareggiano in Italia?

No, purtroppo ad alti livelli no, se mi chiedi da che cosa dipende non te lo so dire. Non so, a volte è così pesante fare la terapia ormonale che poi è difficile essere performanti. La differenza tra me e altre persone forse è stata quella di… credere, non lo so. Una follia, una sana follia. Non so perché io ce l’ho fatta ed altre persone no, cioè io faccio notizia perché ho vinto qualcosa. In realtà persone trans*, altre donne trans* nello sport ci sono, lo so perché le ho conosciute, ma non fanno notizia perché non ottengono risultati. È una visione tossica dello sport, che è molto di più della competizione. Ci sono altre persone ma non sono visibili. Questo è solo a riprova del fatto che nascere “maschi” non ti dà necessariamente un vantaggio. 

Ma secondo te cosa può fare chi si occupa di sport di base e le federazioni per aumentare il numero di persone trans che praticano attività sportiva?

Rendere gli spazi più accessibili e inclusivi, prevedere bagni che contemplino le differenze e facciano sentire a proprio agio, si potrebbero organizzare percorsi formativi per chi lavora nel mondo dello sport che siano orientati al rispetto di tuttә. Dovrebbe essere una regola generale per chi lavora a contatto con l’utenza, avere gli strumenti per accogliere chiunque. E’ importante fare informazione.

Penso che comunque la tua visibilità sia un messaggio potente per la presenza delle persone trans* nel mondo dello sport. C’è qualcosa che vorresti dire ad altre persone trans* che vogliono avvicinarsi all’attività sportiva?

Il mondo dello sport è la realtà più sessista e divisoria per natura. Il fatto che io ce l’abbia fatta forse è un segnale che indica che possiamo iniziare a guardare al futuro in maniera diversa. Direi di provare a fare sport, io ce l’ho fatta e magari questo vuol dire che possono farcela anche altrә. Spero che il mio esempio possa essere d’aiuto.