in collaborazione con Lesbiche Bologna
Il 20 maggio si celebra la Giornata mondiale delle api e negli ultimi anni se ne sente molto parlare: api che scompaiono, api che salveranno il pianeta, api come simbolo di qualcosa. Le api sono politiche: società monarchiche ma in realtà caratterizzate dall’egemonia operaia; le api sono femministe: comunità matriarcali di sole individue femmine che assumono tutti i ruoli importanti per il funzionamento del gruppo; le api sono ecologiche: vivono in stretto rapporto con l’ambiente che attraversano; le api sono sostenibili: utilizzano le risorse senza sfruttarle e svolgono un ruolo fondamentale per il mantenimento degli equilibri ecologici; le api sono altruiste: favoriscono l’impollinazione della flora e garantiscono la sopravvivenza di molti essere viventi, incluso l’uomo. E uso di proposito la parola “uomo”, come nella famosa frase attribuita a Einstein, ma mai pronunciata, «Se le api scomparissero dalla terra, per l’uomo non resterebbero che quattro anni di vita». Alle donne, invece, molti di più.
Insomma, le api sono di moda, sono cool, sono oggetto di venerazione e di rispetto… e anche di numerose operazioni di beewashing di dubbio valore. Io, che le api le studio e le frequento da sempre, vorrei provare a mia volta ad assumerle come esempio dei miei valori e pormi la domanda: le api sono lesbiche? Immagino già qualche collegh* apidolog* storcere il naso. Le api operaie non si accoppiano tra di loro, anzi non si accoppiano affatto, mentre la regina è chiaramente eterosessuale. Devo prima spiegare che il concetto di lesbica va oltre il semplice orientamento sessuale, che rappresenta una soggettività, un modo di essere, di relazionarsi e di muoversi nel mondo.
Le api sono considerate un esempio di efficienza. Da quando nascono a quando muoiono, la loro vita è improntata al dovere. Appena nate fanno le pulizie, a 4 giorni nutrono le larve e la regina, a 10 costruiscono i favi, a 16 immagazzinano nettare e polline, a 20 difendono la colonia, nell’ultima parte della loro vita bottinano nettare e polline sui fiori. Si chiama age polyethism, polietismo dell’età, l’evoluzione del comportamento e del ruolo in base al momento della vita, ed è la forma più evoluta di divisione del lavoro esistente tra gli insetti sociali. È ciò che le rende così affascinanti, così perfettamente formidabili e anche, ammettiamolo, un po’ antipatiche. Tuttavia, lo studio del 1975 di Martin Lindauer, Il linguaggio delle api sociali, mise in luce qualcosa di totalmente imprevisto: l’attività in assoluto più frequente nelle api di qualunque età è il riposo, l’inattività. Una forma di inoperosità dinamica, che le porta a vagare apparentemente senza motivo né meta per l’alveare, scambiandosi segnali le une con le altre. A me piace pensare che durante questi momenti le api sperimentino ciò che noi potremmo definire un momento di piacere: piacere di concedersi una sosta, di muoversi tra le compagne, di stare assieme.
Il piacere è un concetto non contemplato negli insetti, ma non è detto che non esista. Recentemente, parlando di api, la parola piacere emerge sempre più spesso. Il piacere delle api è il titolo del libro del mio eclettico collega Paolo Fontana, che nelle prime pagine parla del benessere fisico e mentale che si prova nell’immergersi in un alveare e ne conclude che «organismi che danno tanta felicità non possano non esserne partecipi». Possibile quindi che le api provino una forma di piacere che non si identifica con il mero piacere sessuale, dacché le api operaie sono il prototipo della non-sessualità: non si accoppiano, sono sterili, non hanno un apparato copulatore formato come quello della regina. Quest’ultima, dal canto suo, è ipersessualizzata: si accoppia una sola volta nella vita, ma con numerosi maschi (fuchi), circa una quindicina, che in quest’atto unico e crudele perdono la vita al solo scopo di trasmettere il loro seme alla progenie. La restante vita di una regina di api è in realtà alquanto monotona. Tutto il giorno depone uova, circa un migliaio al giorno, si fa nutrire dalle operaie e interpreta una regalità che è una forma di schiavitù. Se è fortunata – e se l’apicoltrice o apicoltore glielo permette – un bel giorno sciama, con un gruppo di operaie, verso una nuova casa, lasciando la precedente a una regina più giovane; unico suo atto di libertà conquistata.
Nell’alveare chi gode realmente sono le operaie e io me le immagino svolgere i loro compiti, apparentemente così precisi, con quella forma di scanzonata approssimazione che assume l’aspetto di perfezione solo nella collegialità. Le api sono definite un superorganismo, perché ognuna di loro rappresenta una cellula e come le nostre cellule possono funzionare, non funzionare, ammalarsi, ribellarsi, impazzire; è l’organismo nel suo insieme ad andare avanti.
Le api sono prima di tutto una comunità e una comunità di sole femmine. Per questo aspetto sono state elette a vessillo, da alcune femministe, quale esempio di società matriarcali che fanno a meno degli individui di sesso maschile. Il femminismo delle api è stato celebrato dalla scrittrice/apicoltrice Barbara Bonomi Romagnoli, che nel suo Bee happy – Storie di alveari, mieli e apiculture profetizza una pink bee revolution, a partire dalle caratteristiche meno ortodosse di queste insette: libertà, meticciato, fecondazione eterologa, maternità condivisa, poliandria. Ma è possibile spingersi ancora oltre, paragonando la società delle api alle comunità lesbiche?
Anche noi lesbiche abbiamo il nostro polietismo dell’età: da bambine e adolescenti siamo – non tutte e non solo – confuse, nascoste, marginali, originali; da adulte siamo – non tutte e non solo – libere, consapevoli, ribelli, rivoluzionarie. Nelle nostre comunità lesbiche convivono persone in età e momenti della vita differenti, soggettività e orientamenti sessuali diversi, posizionamenti politici e attitudini relazionali variegate. Così come per le api, non esiste una lesbica, ma le lesbiche. Una apis nulla apis dicevano i latini, un’ape da sola non è un’ape, la cooperazione è alla base della loro esistenza, esistono in virtù della loro comunità, che è una famiglia nel senso più profondo. Allo stesso modo molte lesbiche, rifiutate o allontanatesi per scelta dalle loro famiglie di origine, trovano nella comunità lesbica la loro nuova sfamiglia, una rete di protezione e di affetti che spesso rappresenta l’unica o la più profonda relazione della loro vita. Queste due entità, api e lesbiche, condividono il senso di unità, il sostegno reciproco, la difesa del gruppo proprie di una comunità. Così come le api lottano fino alla morte per difendere l’alveare dagli aggressori (e il loro sacrificio non è casuale, ma serve a liberare sostanze che attirano altre api alla difesa), le lesbiche di ogni tempo hanno esposto i propri corpi e messo a rischio le proprie vite per difendere il diritto all’esistenza delle loro (e della nostra) soggettività non conforme e i lesbicidi di oggi ne sono ancora l’amara testimonianza.La vita di ogni singola ape dura solo 30 giorni, ma è funzionale alla costruzione della comunità, che si trasforma sciamando, mutando individui, cambiando regina, spostando il nido, ma sopravvive per un tempo potenzialmente infinito. Così le comunità lesbiche mutano e si trasformano, si separano e confluiscono le une nelle altre, si trasmettono le loro memorie, le loro genealogie, i loro immaginari, attraverso racconti orali, testi scritti, archivi. Il perpetuarsi delle comunità delle api, che nella genetica variabile di ogni popolazione porta con sé attitudini e comportamenti in continuo divenire, mi ricorda il tramandarsi di questa memoria collettiva, la trasmissione di conoscenze e consuetudini, di gioie e libertà conquistate dalle comunità lesbiche che ci hanno precedute.
Perseguitaci