CHE COS’È L’ANTISPECISMO OGGI
“A chi
ha decostruito tutto tranne il proprio privilegio
ha decostruito il proprio privilegio, ma solo a pezzi
ha decostruito tutto, tranne ciò che ha interiorizzato
a chi ha interiorizzato che la lotta si fa solo per le oppressioni che ti riguardano direttamente (siccome non diventerai mai un pulcino maschio, allora quello che succede al pulcino maschio non ti riguarda…)”
Rachele Borghi
Di antispecismo si parla ormai con una crescente insistenza. Sebbene la violenza sugli animali sia stata un elemento costante almeno a partire dal neolitico, è innegabile che gli ultimi due secoli abbiano imposto delle svolte tali da collocare la questione al centro dell’attenzione pubblica. La sistematizzazione dello sfruttamento delle altre specie, insieme al fatto che è organizzato su larga scala, è ben illustrata dal fenomeno degli allevamenti intensivi, in cui ogni aspetto della vita di galline, mucche, maiali è determinato da qualcun altro, e, in ultima analisi, dal mercato: quando e dove nascere, come nutrirsi, quanto (poco) vivere, dove trascorrere il tempo, quanto spazio occupare, con chi relazionarsi e come morire. Insomma, quello che il filosofo Jacques Derrida ha chiamato uno “sterminio per moltiplicazione” del tutto meccanizzato. Non è solo cresciuto il numero di animali sfruttati, ma anche l’importanza di tali attività per il sistema di produzione. Basti pensare a quanti oggetti sono prodotti tramite porzioni di corpi animali o tramite il loro lavoro, dal cibo ai vestiti, dall’arredamento all’alta tecnologia. Tanti che anche una persona vegan non potrà dire di non contribuire indirettamente alla sofferenza delle altre specie.
A partire da un’indignazione diffusa, si è sviluppato in Occidente un dibattito teorico che ruota intorno al problema della liceità di un simile trattamento, un problema che può essere formulato in modo semplice ponendo la seguente domanda: come si giustifica il fatto che imprigioniamo e uccidiamo membri di specie con capacità cognitive del tutto simili ai cani e ai gatti di casa, quando per questi non siamo disposti ad accettare tali livelli di violenza? La data di nascita convenzionale dell’antispecismo moderno (sebbene siano rintracciabili linee di pensiero e di azione precedenti, come le lotte delle prime femministe inglesi contro la sperimentazione animale) è il 1975, anno di pubblicazione di Animal Liberation di Peter Singer, filosofo che prende le mosse dall’adagio di Bentham “La domanda da porsi non è se sanno ragionare, né se sanno parlare, bensì se possono soffrire”. Singer argomenta che le facoltà cognitive ed emotive condivise dall’umano e dagli altri animali – principalmente il fatto di provare dolore fisico – sono sufficienti per rendere eticamente inaccettabile il fatto che causiamo sofferenza a un individuo di qualsiasi specie. Se lo facciamo, è perché siamo più forti e perché adottiamo un’ottica specista: accordiamo cioè un minor valore morale agli altri animali a partire da attributi che in realtà non hanno a che fare con i giudizi di valore, proprio come la pelle bianca o il possesso di un pene – differenze biologiche osservabili ma di per sé neutre – non rendono una persona superiore alle altre. Infatti, lo specismo si fonda sull’idea che esista un carattere distintivo posseduto solo da noi, cioè da quella che in fondo è una specie fra le tante, Homo Sapiens: l’Uomo sarebbe l’unico animale che pensa, che parla, che ride o che elabora teoremi matematici, oppure la specie con il cervello più grande o più pesante, o, ancora, l’unica che sa fingere di mentire, che possiede la cognizione della morte o che piange dopo aver scopato – per non citare che alcune delle ipotesi, più o meno stravaganti, formulate dagli umani nei secoli.
Secondo questo approccio, lo specismo sarebbe un pregiudizio, analogo al sessismo e al razzismo. Un’idea da cui discendono conseguenze materiali. Le elaborazioni successive hanno tuttavia messo in discussione tale formulazione, ribaltando il rapporto fra pregiudizio e sfruttamento: non sfruttiamo gli animali perché li consideriamo inferiori, piuttosto elaboriamo teorie che li dipingono come inferiori per giustificare il fatto che li sfruttiamo. L’antispecismo di prima generazione è stato in qualche modo responsabile dell’enfasi che i movimenti animalisti hanno posto sul vegetarismo/veganismo come pratica di consumo individuale, la cui diffusione da persona a persona – “go vegan”! – garantirebbe lo smantellamento del pregiudizio specista e dunque della violenza. Spesso con qualche corollario problematico, come il ricorso agli “argomenti indiretti” (“diventa vegano perché fa bene alla tua salute”); o come la tendenza a colpevolizzare il singolo consumatore di carne indipendentemente dalla sua classe sociale e dalle sue capacità di influire su un sistema economico ben più grande di lui. L’antispecismo più recente ha invece enfatizzato il fatto che lo sfruttamento animale non è un fenomeno derivante dalla crudeltà degli individui, bensì un sistema di produzione la cui abolizione non può essere demandata al buon cuore del singolo o alle scelte del consumatore, proprio perché è un problema politico che riguarda la società nel suo complesso. Il veganismo stesso non è più uno stile di vita, ma una delle varie espressioni di una presa di posizione sullo sfruttamento.
Negli ultimi anni sono molte le riflessioni che hanno portato nuova linfa a questo pensiero, tanto che si è parlato di antispecismo di terza generazione, per sottolineare l’esistenza di contributi che nascono dall’apporto di discipline eterogenee come l’etologia cognitiva, la fenomenologia, le filosofie post-strutturaliste, l’ecofemminismo (Carol Adams e Val Plumwood), la teoria queer (Judith Butler e, in Italia, Federico Zappino). Se Peter Singer e poi Tom Regan hanno promosso un allargamento del cerchio della considerazione morale facendo leva sulle somiglianze con il modello umano, le teorie più recenti valorizzano le differenze o, come nel caso dell’antispecismo “del comune” di Massimo Filippi, la vulnerabilità condivisa dai corpi animali. Essere soggetti a pieno titolo non significa soltanto provare dolore, ma anche desiderare o resistere attivamente all’oppressione, come testimoniano gli animali che fuggono e si ribellano negli allevamenti o negli zoo. “Umanità” e “animalità” diventano categorie politiche e costrutti sociali: è animale chi è sacrificabile, chi è macellabile, e non tanto chi possiede quattro zampe o una coda. L’animalità è una condizione in cui può scivolare, all’occorrenza, anche un umano appartenente alla categoria “sbagliata” – cosa tristemente evidente, oggi, osservando la strage dei migranti nel Mediterraneo. Per questo, rimettere in discussione la centralità dell’Uomo (un soggetto che non è solo “non-animale”, ma anche bianco, maschio, eterosessuale, adulto, abile) significa provare a immaginare un mondo di relazioni improntate all’uguaglianza radicale, un’uguaglianza che sfida anche i confini di specie.
pubblicato sul numero 41 della Falla, gennaio 2019
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