Tra il caso Più Libri Più Liberi e le dichiarazioni intorno all’inaugurazione della Fondazione Cecchettin, tutto avvenuto nei giorni intorno al 25 novembre, sembra appropriato porsi qualche domanda su quale possa essere nel concreto un approccio alla violenza di genere che tenga conto della posizione abolizionista o antipunitiva. Per una giustizia trasformativa di adrienne maree brown, tradotto da Meltemi recentemente e pubblicato insieme al testo Ci siamo cancellate? del Laboratorio Smaschieramenti prova a esplorare questa questione, con un approccio che spinge a porsi nuove domande.
Sono circa 140 pagine dense di riflessioni tratte dal blog dell’autrice a partire dalle problematicità del callout, pratica diventata sempre più comune dopo l’ondata del #metoo. Inizialmente pensata per rispondere a violenze causate da un forte squilibrio di potere, quando questa pratica è diventata frequente all’interno dei contesti orizzontali femministi ha finito per comunicare che il movimento stesso credeva che «Non possiamo cambiare. Non crediamo di poter creare percorsi efficaci per rendere chi danneggia qualcuno che guarisce e che cresce. […] Non crediamo nella nostra stessa complessità. Non crediamo di poter gestire i conflitti e gli scontri secondo principi. Siamo in grado di gestire solamente il pensiero binario: buono/cattivo, innocente/colpevole, angelo/abusatore, bianco/nero».
Questo desiderio di complessità nel formulare una risposta ai conflitti e agli abusi nasce in particolare nella comunità femminista nera per creare una giustizia che sia del tutto slegata dalla forma penitenziaria delle istituzioni statali – spesso razziste – degli Stati Uniti. La vera forza della giustizia trasformativa, tuttavia, è che non punta al ristabilimento della situazione precedente l’abuso, ma vuole modificare le condizioni che l’hanno reso possibile nell’ambiente in cui è avvenuto. «La giustizia trasformativa è relazionale, accade su scala comunitaria».
Questa forma di giustizia deve porsi la domanda “come possiamo andare avanti, preso atto di questa rottura?” e interrogare tutte le persone della comunità in nome della loro responsabilità frattale, la responsabilità per il funzionamento del sistema di cui esse fanno parte derivante dalla loro stessa partecipazione.
Nelle riflessioni di adrienne maree brown, come anche nell’inquadramento rispetto al contesto italiano del Laboratorio Smaschieramenti, non mancano dubbi e critiche a questo approccio, e anche queste critiche sono accolte come parte fondamentale della creazione di pratiche che sono ancora in una fase molto sperimentale, ma riescono a tratteggiare un possibile e coraggioso nuovo approccio alla violenza di genere.
Riprendendo un recente commento di Giusi Palomba legato proprio alla vicenda PLPL: «Spesso si pensa che il lavoro antipunitivo voglia dire spegnere la rabbia e il conflitto. E invece, il lavoro aspira a raggiungere i margini in cui quella rabbia e quel conflitto vengono vissuti in solitudine».
La presa di distanza dalla comunità che viene istintiva quando una denuncia arriva vicino a sé nasce dal bisogno di proteggersi da un rischio percepito, ma – oltre al pericolo di strumentalizzazione che corre un callout pubblico nei movimenti progressisti – la vera possibilità di guarigione arriva quando si sceglie di affrontare insieme il problema che è emerso dal callout, lavando i panni sporchi in piazza, tuttә assieme.
La scommessa e la proposta che emerge dall’esperienza frocia di Atlantide evocata dal Laboratorio Smaschieramenti è quella di costruire spazi braver piuttosto che safer, spazi in cui il desiderio di incontrare l’altrә sia più importante rispetto alle mille regole che possano metterci in sicurezza dai rischi che comunque l’incontro porta con sé. «Il motivo per cui ad Atlantide ci sentivamo di sperimentare molto di più di quanto non avremmo fatto in qualsiasi altro luogo una grande intimità tra i corpi […] era che quelle feste erano uno spazio profondamente transfemminista e frocio e autogestito, in cui tuttu ci sentivamo forti, potenti, in cui sapevamo di essere la maggioranza».
Con questo libro forse non troveremo la rassicurante lista di regole in materia di callout e relazioni di cui pensiamo di aver bisogno, ma la fondamentale idea che se non è possibile del tutto prevenire e impedire che le relazioni tra persone comportino dei rischi, è allora importante scommettere sul potenziale che queste hanno in termini di cura, e costruire spazi dove la loro potenzialità può esprimersi. «Forse il ruolo dei collettivi politici non può essere quello di dare direttamente questa cura e questo amore. […] Piuttosto, potrebbero assumere il compito di lottare per costruire le condizioni affinché più cura sia possibile».
Altri consigli di lettura:
Giusi Palomba, La trama alternativa: sogni e pratiche di giustizia trasformativa contro la violenza di genere. Roma, Minimum fax, 2023.
Sarah Schulman, Il conflitto non è abuso: esagerazione del danno, responsabilità collettiva e dovere di riparazione, traduzione di Giusi Palomba. Roma, Minimum fax, 2022.
Angela Davis, Aboliamo le prigioni?: contro il carcere, la discriminazione, la violenza del capitale, postfazione di Valeria Verdolini, traduzione di Giuliana Lupi. Roma, Minimum fax, 2022.
Immagine in evidenza: en.wikipedia.org
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