Recentemente abbiamo scritto un’appendice alla traduzione italiana del testo di adrienne maree brown We wil not cancel us, pubblicato da Meltemi.
Il testo di brown, scritto durante la pandemia e legato al contesto dell’attivismo femminista e per la liberazione nera in Nordamerica, di cui l’autrice fa parte, critica l’uso inflazionato dei call out, cioè delle denunce pubbliche rivolte a singolɜ che hanno agito violenza di genere, razzista o di altro tipo su di noi, accompagnate dalla richiesta, rivolta a chiunque legga il post, di boicottare o allontanare questa persona almeno fino a che non si scusi o non ripari al danno fatto, o a volte anche per sempre. Queste denunce, un tempo utilizzate come arma dal basso verso personaggi pubblici potenti, oggi vengono rivolte anche a persone comuni, spesso all’interno della stessa comunità oppressa di cui fa parte la persona che ha subito il danno e fa il call out.
In questa tendenza, brown ravvisa molti problemi: tra questi, l’automatismo con cui rispondiamo a ogni call out cancellando questo e quello senza chiederci cosa sia successo davvero né domandarci se il boicottaggio della persona che ha agito il danno sia davvero l’azione più efficace, in quelle specifiche circostanze, per fermare la violenza; la facile opportunità che il call out offre di deresponsabilizzarsi, di mettersi dalla parte dei buoni boicottando il cattivo di turno; il fatto che violenze di grado molto diverso vengano messe apparentemente sullo stesso piano, dato che si chiede alla comunità (o al pubblico) lo stesso tipo di indignazione e di azione sanzionatoria per una molestia sessuale, per un’affermazione sessista, per uno stupro, per un conflitto mal gestito; e per ultimo, ma non per importanza, il carattere punitivo di questa pratica, che per di più produce una punizione sproporzionata proprio ai danni di coloro che appartengono a minoranze discriminate, che una volta mess3 al bando dalla loro comunità, restano isolatɜ ed espostɜ più che mai alla violenza del resto della società.
Pur con la cautela che si deve avere nel trasporre analisi da un contesto all’altro, possiamo dire che molte di queste problematicità stanno emergendo anche nel nostro ambiente. Di certo riconoscere la presenza della violenza anche nelle relazioni intime queer è stato fondamentale, così come riconoscere che, anche se siamo tutte frocie, anche al di fuori delle relazioni sentimentali e sessuali possiamo sempre agire privilegi di classe, di razza, di genere, di abilità le unɜ contro le altrɜ e/o ferirci a vicenda. Ma questo non doveva portarci per forza a leggere ogni ferita, ogni dolore, ogni conflitto come violenza (di genere, razzista, abilista ecc.), né a pensare che l’unico modo di reagire a una violenza sia richiedere il boicottaggio della persona. Purtroppo è quello che sta accadendo, e non si può dire che da quando abbiamo iniziato a farlo si sia prodotto maggiore benessere, né che le nostre ferite guariscano più facilmente. Tanto più che, in una socialità post covid sempre più relegata al virtuale, la pratica del call out è legata a doppio filo ai social network che, senza voler scadere nella tecnofobia, sono comunque architetture digitali sviluppate appositamente per fomentare l’aggressività, la polarizzazione delle opinioni, l’individualismo, cioè quei comportamenti che fanno aumentare la quantità di click.
Adrienne maree brown propone come possibile antidoto la giustizia trasformativa: un insieme di pratiche sviluppate in anni di lavoro comunitario, in cui collettivamente, a partire dal vissuto delle persone che hanno rispettivamente subito e agito il danno, si cerca di promuovere, almeno al livello micro della comunità in cui il danno ha avuto luogo, una trasformazione delle relazioni sociali e delle strutture di potere che hanno permesso o facilitato il verificarsi della violenza. La giustizia trasformativa, quindi, non nasce come strumento specifico per la violenza di genere, ma per qualsiasi tipo di abuso di potere interno a una comunità; non è un processo volto a verificare che la persona che ha agito il danno si sia trasformata in una persona migliore e sia quindi degna di continuare a far parte della comunità; inoltre, non può essere applicata se la persona che ha subito il danno e la persona che lo ha agito non desiderano entrambe impegnarsi in essa.
Ci sono degli enormi fraintendimenti nei discorsi dei movimenti italiani attorno a questi temi: da un lato, un ambito in cui sembra che la politica transfemminista queer debba avere come unico strumento, o come strumento principe, l’allontanamento di qualunque autore di violenza di genere dai nostri spazi; dall’altro lato, un discorso “compagno” per cui fare call out è sempre sbagliato e applicare la giustizia trasformativa (o quel che i fautori di questo discorso chiamano così avendoci capito ben poco) è sempre possibile e sempre giusto, e soprattutto è l’unica scelta degna di unə attivista davvero antiautoritariə e anticarcerariə. Un discorso, quest’ultimo, che rischia di essere usato strumentalmente contro le donne e le frocie che chiedono conto della violenza sessista dei compagni etero nell’ambito di lotte anticapitaliste o di altro tipo, e che comunque vira pericolosamente dalla politica verso un discorso di coerenza morale con i propri ideali. Chi avrà la pazienza di leggere il nostro saggio vedrà che la prospettiva della giustizia trasformativa non ci soddisfa del tutto né ci sembra risolutiva, e che abbiamo cercato di andare un po’ più a fondo nell’analizzare le cause che ci spingono a politicizzarci sempre più in nome di ciò che di male ci è stato fatto e sempre meno in nome di ciò che di buono possiamo fare insieme.
Non stiamo dicendo che il call out rivolto all’interno della propria comunità è sempre sbagliato, e che quello rivolto all’esterno è sempre giusto. Un call out può avere forme e soprattutto obiettivi diversi. Dire pubblicamente che Leonardo Caffo, con una denuncia penale a carico per violenza domestica, non andava invitato a un festival dedicato alla memoria di Giulia Cecchettin può avere come obiettivo quello di sollevare un dibattito, spingere personaggi famosi a prendere posizione nella speranza che ciò abbia un impatto sull’opinione pubblica, o impedire che un evento culturale si giovi di un’immagine femminista priva di sostanza. Denunciare pubblicamente che uomo in una certa posizione di potere compie abitualmente abusi sessuali può puntare a farlo rimuovere dal suo incarico in modo che non possa più agirli, come infatti è accaduto dopo che Asia Argento e altre attrici, nel 2017, hanno raccontato ai giornali gli abusi del produttore Harvey Weinstein. Fu l’inizio del movimento #metoo. Può servire anche a mandare il messaggio che se subisci abusi sessuali, non sei tu a dovertene vergognare: è importante, ma è solo il primo passo, necessario e non sufficiente, per una lotta che cerchi di mettere fine alla sistematicità degli abusi sessuali.
Quando chiediamo l’allontanamento di un uomo etero cis che ha agito violenza di genere o omolesbobitransafobica da uno specifico spazio, possiamo farlo con l’intento di garantire la partecipazione serena della persona che ha subito il danno a quello spazio, perché temiamo ragionevolmente che la sua presenza possa reiterare il danno, oppure per una questione di principio, perché riteniamo quella persona moralmente indegna di far parte della comunità. Lo stesso si può fare se la persona che ha agito il danno è queer e lo spazio di cui la si vuole allontanare è uno spazio di movimento queer, ma bisognerebbe essere coscienti che la disparità di potere in questo caso è probabilmente molto meno grande e meno strutturale che nel primo, e che le conseguenze dell’esclusione di una persona queer dalla comunità sono molto più pesanti. Inoltre, a queste richieste di allontanamento la comunità politica può rispondere con discernimento e cura, oppure acriticamente e automaticamente, per sfuggire alle accuse di complicità con l’abuser che purtroppo arrivano spesso altrettanto automaticamente.
Affrontare ogni singolo atto di violenza di genere o di altro tipo con un call out e non, ad esempio, con azioni che puntino collettivamente alle disparità di potere strutturali, alle concezioni culturali, alla divisione sessuale del lavoro che hanno prodotto quello e mille altri atti di violenza è pressoché impossibile. Di fatto non risulta nemmeno efficace nel guarire i nostri traumi e le nostre ferite individuali, perché a parte la notorietà e il senso di legittimazione amara che deriva dall’essere riconosciutɜ come vittime all’interno di una comunità politicizzata, alla fine restiamo con un senso di vulnerabilità e pericolo anche maggiori. Così l’identità travolge i percorsi di decostruzione, di auto-inchiesta, di relazione, di costruzione di ponti e non di confini. Ci sembra urgente costruire uno spazio, anche interno e protetto, dove di tutto questo si possa parlare e discutere senza essere tacciatɜ di mettere in discussione la lotta alla violenza di genere non appena si avanza un interrogativo, per cercare di costruire pratiche comuni in grado di produrre trasformazioni sociali. Prima che, a forza di cancellarci a vicenda, non resti più nessunɜ da cancellare.
Immagine in evidenza: dinamopress.it
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