di Roberta Passaghe e Artemisia Pulina
Prima che diventasse istanza delle lotte femministe e queer, l’autodeterminazione è stata pienamente incarnata da una pittrice la cui potenza artistica ha travalicato i secoli: l’8 luglio 1593 nasceva a Roma Artemisia Gentileschi.
Muove i primi passi a bottega dal padre Orazio e, pur mostrando suggestioni caravaggesche, il suo è un tocco inconfondibile, ma il riconoscimento non arriva senza difficoltà. Nonostante l’indubbia qualità del suo lavoro, riconosciuta dai contemporanei, la pittrice sconta l’essere una donna in un contesto di totale predominio maschile, in un’incessante ricerca di incarichi o in compensi ridotti rispetto ai colleghi (una forma antenata di gender pay gap).
Affronta poi giovanissima quello che descriverà come uno degli eventi più drammatici della sua vita: lo stupro a opera di Agostino Tassi. Ottiene un esito favorevole al processo – nel cui iter è sottoposta spesso a tortura -, ma la vittoria non si traduce in una giustizia reale e starà alla sua risolutezza riaffermare la dignità di donna e di artista.
La versione finale della tela più nota, Giuditta che decapita Oloferne, incarna il personale processo di autodeterminazione, dal ruolo della luce e dei chiaroscuri all’uso dei colori, dal riacquistato valore dell’ancella partecipe dell’azione, in una collaborazione femminile innovativa e di straordinaria potenza icastica, alla forza del tema rappresentato. Giuditta/Artemisia giustiziera di Oloferne/Tassi non è spaventata dallo scorrere del sangue o intimorita dalla ferocia del gesto, bensì risoluta e fiera, emblema della riappropriazione dello spazio e della propria storia.
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