Antonio vide riflesso nella lama il volto di David Bowie.
L’immagine era quella di Diamond dogs, con lui metà umano e metà cane, sul poster di camera sua. Gli tornò in mente quel messaggio che aveva trovato nel portapacchi della sua bici. Qualcuno lo metteva in guardia su un pericolo imminente. Mettere insieme i pezzi distolse la sua attenzione dal dolore, che comunque fu meno intenso di quanto avesse immaginato. La prima ferita affondò nelle parti molli del suo addome, lasciandolo stordito e sorpreso. Antonio indietreggiò travolgendo di schiena lo stendino con i panni puliti. Cadde a terra in una pozza di sangue caldo e cotone profumato, pronto per l’asse da stiro. Quello sarebbe stato il momento perfetto per lasciarsi andare a un conato sanguinolento di liberazione, spirando con lo sguardo rivolto verso l’alto. Ma non era un film e non avvenne niente di tutto ciò, anzi. Il ginocchio di Riccardo gli schiacciò la pancia ferita e fece più male della coltellata che l’aveva preceduto e di quelle che di lì a breve gli trapassarono i fianchi più volte all’altezza dei reni. Ogni volta che la lama entrava e usciva lui se ne accorgeva con qualche attimo di ritardo. Fece in tempo a ribellarsi quando ormai era stato sopraffatto e con poca convinzione. Era sempre stato un tipo determinato, ma combattere per la sua vita gli sembrò uno sforzo impossibile da affrontare. Ogni sua protesta venne presto indebolita, ogni sua azione soffocata nell’abbandono e la presa delle sue dita sfiancata dall’intorpidimento che gli legava gli arti. Guardò il suo Ricky in faccia e non lo riconobbe subito. Era serio e metodico, quasi distaccato. Ma quando si accorse di essere guardato gli sorrise come se Antonio si fosse appena trasformato in un adorabile cucciolo, il suo. Scese per accarezzargli il volto con la mano pulita, quella dell’anello, mentre l’altra continuava a infierire, colpo dopo colpo, evitando gli organi vitali. Infine si chinò su di lui per baciarlo, completando l’opera con un affondo che lo spaccò in due. Fu allora che Antonio realizzò di non aver mai urlato, e se si era lamentato, le sue non erano state grida d’aiuto. La sua morte, in definitiva, era stata come tutte le loro scopate: intima e stremante. La luce si spense dai suoi occhi senza che lui potesse chiedersi il perché della sua fine.
Anna uscì con le prime ombre della sera, dopo aver fatto le pulizie in modo accurato. La cena per due era sui fornelli, pronta per essere servita. Lasciò il laptop acceso ma in stand-by, con ancora Spotify aperto. Il cellulare, completamente scarico, venne abbandonato in bagno sopra le riviste. Le chiavi rimasero dov’erano, nel cestino dell’ingresso.
Con sé aveva un trolley pieno di suoi vestiti smessi, provenienti dalla cantina. Dall’armadio e dai cassetti non aveva preso nulla. Tutto quello che le mancava lo avrebbe comprato successivamente. I contanti li aveva messi insieme con calma, facendoli sparire di prelievo in prelievo, evitando movimenti sospetti. In tasca aveva una decina di biglietti chilometrici del treno, un city pass e quattro fototessere, risalenti agli ultimi due anni, che aveva trovato per caso. Quattro volti che le sembravano usciti dalla sua infanzia.
Arrivata in strada tirò un sospiro profondo. Ogni passo del suo piano era stato studiato in modo da non permetterle un ripensamento. Una volta fuori dal portone non aveva più le chiavi per rientrare e una volta preso il primo treno, non aveva cellulare o computer per farsi venire a prendere. Doveva per forza spingersi fino alla tappa seguente.
La prima tratta la spinse verso est, a passo ben spedito, dritta in Romagna.
Prese un treno fino a Castel Bolognese, poi da lì un secondo fino a Forlì. Dalla stazione dei pullman prese il 132 e si fece cinquantotto fermate, in un’ora di valli e tornanti fino a quando non raggiunse Santa Sofia. L’aria di montagna di metà pomeriggio la svegliò dall’intorpidimento e approfittò della breve pausa del mezzo per sgranchirsi le gambe. Quando ripartirono ci volle una mezz’oretta appena per raggiungere la sua fermata. Scese a Corniolo, circondata da una catena di alte montagne ricoperte di vegetazione, nel Parco delle Foreste Casentinesi. In quel momento aprì la zip posteriore del trolley e ne trasse fuori due tracolle, in modo da issarselo come uno zaino sulla schiena. Per niente spaventata dalla sudata che l’attendeva, prese la strada in direzione della frazione di Lago, fino ad arrivare a un viottolo privato sbarrato da un cancello. Anna ignorò i cartelli di proprietà privata e passò oltre, trovandosi in una mulattiera dissestata dalle frane che costeggiava un torrente in secca.
Fu solo quando si trovò davanti alla casa vicino alla chiusa, la sua meta finale, che si concesse un momento. Abbandonò il trolley nell’erba, lasciò cadere la borsa e chiuse per un istante gli occhi inspirando profondamente. Capire che la donna che aveva accanto, Ester, non era colei di cui si era innamorata, era stato difficile. Allontanarsi da quella persona, identica in ogni dettaglio, che stava pianificando di ucciderla, lo era stato molto meno. Sperava solo che Antonio avesse trovato il suo avvertimento in tempo.
(14 – continua)
pubblicato sul numero 14 della Falla – aprile 2016
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