Ci sono tanti modi e motivi per oltrepassare il cancello che da una traversa di Via Tuscolana ti fa entrare nella Casa delle Donne Lucha y Siesta. Può essere che ci sia la presentazione di un libro che ti interessa, o hai bisogno della sartoria; può essere che vorresti usare il tuo tempo libero diversamente e così vai a vedere se serve una mano; può essere che gli alberi e le panchine ti invoglino e lə tuə figliə possano giocare in tranquillità; può essere che tu abbia preso appuntamento con il centro antiviolenza; può essere che sia l’8 marzo 2008 e con altre centinaia di compagne tu stia andando a dare un senso a un palazzetto abbandonato da molti anni.

14 anni fa abbiamo liberato uno spazio vissuto solo da topi e piccioni per ridarlo alla comunità del territorio, e non solo. Lo abbiamo pulito, ristrutturato, rivitalizzato e lo abbiamo trasformato in una casa, una casa delle donne che da subito è diventata un luogo di riferimento per il contrasto alla violenza di genere. 

Le donne che quel giorno hanno varcato il cancello erano un gruppo eterogeneo, venivano dal movimento per la casa, dal femminismo, dal contrasto alla violenza e avevano capito che quei fili si intrecciavano in un nodo capace di strozzare l’autonomia delle donne e delle loro scelte: al momento di dover andare via di casa per uscire dalla situazione violenta, le alternative – le case, i posti per vivere – erano terribilmente insufficienti. 

Lucha y Siesta nasce per questo: lo sono ancora – le case e i posti per vivere – terribilmente insufficienti, 14 anni dopo. Oggi il sistema dell’accoglienza per le donne che decidono di uscire dalla violenza può contare su 14 posti in più, le stanze di Lucha y Siesta, ma a Roma il totale disponibile non arriva a 30 quando, secondo la Convenzione di Istanbul, una città così grande dovrebbe averne quasi 10 volte tanto

Le criticità dell’accoglienza però non riguardano solo la carenza di posti ma anche la loro qualità: tendenzialmente, quello istituzionale è un sistema assistenziale che infantilizza e spesso rivittimizza le donne

Lucha y Siesta, in questi 14 anni, ha sostenuto il percorso di fuoriuscita dalla violenza di oltre 1200 donne; centinaia sono state ospitate nella Casa con lə loro figliə. Mentre il sistema di accoglienza standard prevede un soggiorno di 6 mesi, prorogabili di altri 6, ognuna di loro rimane tutto il tempo necessario e crea, con il sostegno delle operatrici e di altre professioniste, un proprio percorso di autonomia. Il progetto di ogni donna è assolutamente personalizzato e definito sulle sue esigenze, i suoi obiettivi e i suoi desideri. 

L’operatrice non pensa per la donna, non si sostituisce a lei, ma la sostiene in tutti i momenti del percorso – gli stalli, le retromarce, le inversioni e le mete, esattamente come accade nei percorsi di vita di tuttə – in un processo di empowerment basato sulla relazione tra donne, il riconoscimento dell’altra e l’autodeterminazione.

Pur essendo completamente militante, il centro antiviolenza di Lucha – aperto 2 giorni a settimana, ma con reperibilità h24 – ha i numeri di un centro antiviolenza istituzionale. Come associazione, da qualche mese gestiamo il cav del Municipio III di Roma: la pandemia ha acuito in modo esponenziale la gravità delle situazioni di vita di tantissime donne e persone LGBTQIA+, come  tutte le realtà che si occupano di violenza hanno rimarcato in questi mesi. In quest’ottica cerchiamo di lavorare tanto anche sulla prevenzione e sull’educazione, facendo  diverse attività nelle scuole, che sono l’unica chiave di volta per la creazione di una vera cultura del rispetto

In questi anni Lucha è cresciuta in tante direzioni: prima di tutto è un luogo materiale e simbolico di autodeterminazione contro le discriminazioni di genere. Poi è una casa rifugio, una casa di semiautonomia e un centro antiviolenza; è un collettivo femminista e transfemminista; è uno spazio di cultura, educazione, socialità e crescita; è un laboratorio politico che promuove nuove formule di welfare e di rivendicazione dei diritti a partire dal protagonismo femminile e che ora sta elaborando il primo bene comune transfemminista.

Dopo due anni al cardiopalma – tra minacce di sgombero e distacco delle utenze, un Comune sordo, ipocrita e violento, la svalutazione dei percorsi di autonomia di donne che seguivamo da tempo, il Covid-19, tre aste e innumerevoli campagne comunicative di grande bellezza e successo con cui abbiamo messo in campo le iconiche luchadoras  – il 5 agosto scorso la Regione Lazio ha acquistato, con i fondi stanziati appositamente a dicembre 2019 da un gruppo di consigliere e consiglieri, lo stabile in vendita

Intorno a noi tuttə parlano di salvezza. Noi, dopo un enorme e ovvio sospiro di sollievo e vari brindisi, sappiamo che si è aperta una nuova fase di trattativa per Lucha, un futuro possibile dopo anni di precarietà e incertezze. Ma a questo ci stiamo preparando da mesi. 

Quando, due anni fa, ci è stata data la notizia ufficiale che la Casa sarebbe stata messa in vendita, abbiamo subito attivato la nostra ampia comunità, che ha risposto alla grande: è nato il Comitato Lucha alla città, con l’obiettivo di provare a partecipare all’asta e comprare l’edificio. Ora quel fondo è un tesoretto che probabilmente metteremo a disposizione della sua ristrutturazione. Oltre al denaro, però, la rete comunitaria in cui Lucha y Siesta è intessuta ha risposto anche con la presenza, il supporto e l’apporto di competenze e abbiamo avviato un processo partecipato per definire tuttə insieme come sarà Lucha 2.0, bene comune transfemminista. Siamo arrivatə al terzo appuntamento di questa progettazione entusiasmante che valorizza il pensiero elaborato anche con altre importanti esperienze come la Casa Internazionale delle Donne di Roma, l’ex-asilo Filangieri di Napoli e Macao di Milano, con cui ci siamo impegnatə nell’approfondire il legame. Un pensiero fortemente basato sul concetto di cura, tra beni comuni e lotta femminista e transfemminista.

Raccontare l’esperienza di Lucha y Siesta non è facile: il panorama cambia più o meno leggermente in base alla posizione di chi guarda, ma la prospettiva è una sola. 

La violenza di genere e sui generi è strutturale e sistemica; non è la causa ma un sintomo e noi produciamo gli anticorpi per debellare la malattia del patriarcato. Nel farlo, va detto, ci divertiamo anche molto.

«Se non posso ballare, allora non è la mia rivoluzione» non è solo una citazione da t-shirt, ma un’impostazione che, a braccetto con la creatività, la bellezza, la sorellanza e l’autodeterminazione, ci ha permesso di affrontare tanti ostacoli e tanti momenti bui, sia come attivistə che come operatrici antiviolenza, senza farci schiacciare dal Nulla. 

La nostra storia è infinita davvero perché quello che in questi 14 anni abbiamo creato, tanto più nella sua evoluzione di bene comune transfemminista, non è un luogo né solo un collettivo di persone, ma un insieme di pratiche ed elaborazione politica che si diffonde oltre le mura del palazzo e converge, in un rapporto di mutuo scambio, nel flusso internazionale della lotta al patriarcato e alla violenza di genere e sui generi.

Immagini dalle attiviste di Lucha y Siesta