Portata alla ribalta grazie a prodotti mediatici recenti come Pose (Usa 2018-2021), RuPaul’s drag race (2009-), e ancor prima con il documentario Paris is burning (Usa 1990), la cultura Ballroom si è gradualmente imposta come una delle più affascinanti espressioni artistiche della comunità queer.
Tra categorie, vogueing e runway, la realtà Ballroom si è strutturata nel corso degli anni come una sottocultura capace di usare il linguaggio artistico e performativo per creare uno spazio sicuro per tutte le soggettività marginalizzate. Una sottocultura, quindi, che è in grado di essere un collante per la comunità queer e allo stesso tempo un luogo sicuro per l’espressione del sé. Proprio per questo le lunghe battles tra le concorrenti hanno rappresentato, e continuano a rappresentare, un luogo in cui l’espressione della propria identità non è solo incoraggiata, ma diventa lo scopo stesso della manifestazione.
Sebbene nell’immaginario comune, proprio grazie alla serie tv Pose, si sia fissata un’immagine della cultura Ballroom come fenomeno appartenente agli anni Ottanta e Novanta, essa ha in realtà una storia ben più lunga. Alla fine degli anni Sessanta, in una New York ancora segnata dalle discriminazioni razziali, le persone queer razzializzate si trovavano riunite in alcune sale private del quartiere di Harlem per spettacoli ed esibizioni. Queste piccole sale della periferia- sia sociale che geografica- della Grande mela rappresentavano gli unici luoghi dove ci si poteva esprimere liberamente senza il rischio di subire aggressioni o venire arrestate.

Inizialmente le serate non avevano una vera e propria struttura, erano semplicemente dei momenti di convivialità e divertimento in cui le persone potevano sfilare davanti ad un pubblico non giudicante. Con il passare degli anni, tuttavia, si iniziarono ad introdurre delle vere e proprie gare tra i gruppi partecipanti, quelli che poi con il tempo verranno chiamate houses, e che segneranno uno degli aspetti più peculiari della cultura Ballroom. Tra gli anni Settanta e Ottanta, infatti, nacquero le prime houses, corrispondenti a delle vere e proprie famiglie di elezione con una mother e/o un father, e che rappresentarono un rifugio per molte persone cacciate di casa. Una mother si occupava sia del sostentamento materiale delle persone che facevano parte della house, sia della loro formazione artistica, che permetteva loro poi di partecipare alle serate di Ballroom. Alcuni dei nomi delle houses, come House of Labeija o House of Extravaganza, sono diventati leggendari e sono riconosciuti oggi come delle pietre miliari nella storia della Ballroom.
Alla fine degli anni Settanta, quindi, la ballroom era organizzata attorno ad una competizione agguerrita tra le varie houses che venivano giudicate da una giuria secondo le categorie per cui i membri decidevano di sfidarsi. Uno degli aspetti principali su cui si basava il giudizio della riuscita di una performance era il concetto di realness, che potremmo definire come l’abilità di simulare in modo realistico lo stile che la categoria prevedeva. Il valore artistico della Ballroom derivava in gran parte proprio da questo aspetto di performatività e di impersonificazione, che permetteva a questa sottocultura di essere un laboratorio per la performance di genere. Le partecipanti, infatti, per poter mostrare alla giuria la realness, avevano ampio spazio per poter sperimentare con i vestiti, il trucco e le pose che il loro corpo doveva assumere davanti al pubblico, che a sua volta poteva apprezzare o meno. Il passaggio verso una diffusione mainstream della Ballroom iniziò nei primi anni duemila con la creazione di una rete globale di houses e scuole di vogueing sparse per l’Europa e l’Asia. Ed infatti, proprio ora che la Ballroom sta gradualmente diventando un fenomeno importante della cultura mainstream, è importante ricordare le sue origini ai margini, in quelle favolose serate della comunità nera di Harlem.
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