Questo mese ci affacciamo alla Giornata della Donna dell’8 marzo con alle spalle un San Valentino smosso da un One Billion Rising altamente partecipato in tutta Italia e nel mondo.
Altamente partecipato, sì, ma principalmente da donne, visto che in molte città la presenza maschile era “disincentivata”.
Insomma, come per il grande corteo contro la violenza sulle donne del 24 novembre 2007 a Roma – durante il quale si verificarono addirittura scontri tra un gruppo di donne manifestanti e alcuni giornalisti uomini presenti per lavoro – la partecipazione maschile ad alcuni One Billion Rising era, per così dire, “indesiderata”.
Perché? Ebbene, per molte, One Billion Rising rimane un atto di autodeterminazione femminile; il momento nel quale un miliardo di donne scende per le strade in tutto il mondo per “rompere le catene” dell’oppressione. In quest’ottica, l’uomo non può prendere parte alla danza, egli sarebbe vissuto come l’intruso che di quelle catene non ha mai sentito il peso.
La problematicità di questa visione però, è presto detta: la deriva separatista di rifiutare ogni pratica di analisi e costruzione politica con coloro che vengono ritenuti soggetti oppressori rischia di trovare in questo “ballo esclusivo” un fondamento. Componenti dei movimenti femministi e lesbici, infatti, hanno spesso adottato la sottrazione dalle relazioni politiche e di analisi con i maschi, ritenendo che sia impossibile analizzare la propria oppressione insieme a chi ne è spesso attore, più o meno consapevole.
Mentre la comunità LGBT, in un’ottica intersezionale, lotta per la decostruzione del sistema eteronormativo, ecco che in questi movimenti si riprende proprio quel binarismo sociale per rivendicare una certa alterità nell’essere maschile.
Ora, per quanto io veda più nella comunione di intenti, nella collaborazione, nei movimenti misti e non corporativi l’unica vera strada per sconfiggere le discriminazioni e raggiungere l’eguaglianza a tutti i livelli, non ho comunque intenzione di parlare di “superamento del separatismo“, argomento che in genere ti assicura l’etichetta del “buonista-liberale” in un nano secondo.
Vorrei invece per un attimo soffermarmi sullo scopo di tale forma di manifestazione, perché credo che nel separarsi politicamente, al di fuori dell’analisi della propria condizione socialmente inevitabile, non si escludano, ma anzi si implichino necessariamente momenti in comune.
Il filosofo statunitense Richard Rorty scriveva: “Se non c’è una fase di separazione, non c’è nemmeno una fase successiva di assimilazione; se prima non viene l’antitesi, non c’è una nuova sintesi; senza l’orgoglio, amorevolmente coltivato, di appartenere a un gruppo che avrebbe anche potuto non raggiungere la coscienza di sé se non fosse stato oppresso, non c’è espansione del ventaglio delle identità morali possibili, né – di conseguenza – evoluzione della specie.”.
Ebbene, una volta posta questa forte separazione, non è forse il caso di puntare a quella cosiddetta assimilazione?
Se è vero che chi pratica il separatismo si sottrae agli appartenenti al gruppo oppressore, perché altrimenti sarebbe impossibile analizzarsi al di fuori di quella dinamica, a che pro continuare ad escluderli con diffidenza in un momento così di comunanza come una manifestazione?
Come può One Billion Rising dare visibilità al tema della violenza sulle donne, senza includere chi più di tutti dovrebbe mettersi in gioco, mente e soprattutto corpo, in questo atto celebrativo di libertà dove il ballo si contrappone alle costrizioni patriarcali?
Non sarebbe il caso di togliere l’etichetta “women only” a una lotta politica che mira ad essere di tutte e di tutti?
pubblicato sul numero 3 della Falla – marzo 2015
immagine realizzata da Andrea Talevi
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