UN NUOVO MODELLO PENALE PER LA PACIFICAZIONE SOCIALE

Foto segnaletica di Totò RiinaAll’indomani della morte in carcere di Totò Riina, il capomafia più noto in Italia, condannato a 26 ergastoli, molte erano le frasi festose che si rincorrevano di bacheca in bacheca sui social – come se la notizia fosse relativa non tanto alla morte di un uomo che stava scontando i suoi crimini in galera, ma piuttosto alla sconfitta definitiva della guerra alla mafia.

Come altre volte ho pensato, se in Italia le leggi fossero fatte sulla base del comune sentire delle persone, non mancherebbe molto tempo al ritorno della pena di morte nella previsione normativa del nostro ordinamento giuridico.

Nell’antico mondo greco delle Erinni (le Furie), la famiglia, l’amore e l’amicizia erano gravati dalla continua esigenza di vendicare qualcosa. Il bisogno di ritorsione era incessante, gettava ombra su ogni relazione, comprese quelle fondamentalmente benigne, come il rapporto fra Oreste ed Elettra, rappresentato nelle tragedie di Eschilo. La vendetta rendeva impossibile per chiunque amare qualcun altro.

Nell’Orestea, la dea Atena, che ha già organizzato, senza le Erinni, le sue istituzioni giuridiche, le persuade a cambiare se stesse, in modo che si uniscano a lei nell’impresa di fornire alla polis un governo basato sulla Giustizia. 

Erinni (le Furie)Ma ciò ovviamente significa una trasformazione profondissima, in pratica un mutamento di identità. Le Erinni accettano l’offerta e si esprimono benignamente, proibendo qualsiasi uccisione indiscriminata. Da bestie, caratterizzate dalla forma e dalla forza ossessiva della rabbia, diventano donne e «straniere residenti nella città». Cambiano anche il loro nome: adesso sono le Eumenidi (le Gentili) e non più le Erinni. Eschilo, dunque, suggerisce che la giustizia non si limita a costruire una gabbia intorno alla rabbia, bensì la trasforma radicalmente in qualcosa di umano, ragionevole, calmo, misurato.

La nostra Costituzione, all’art. 27, ha preso le distanze da un modello di pena retributivo, consistente nell’infliggere un raddoppio del male, e ha scelto un modello di pena rieducativo. Tuttavia l’applicazione nel concreto di questo modello penale, come succede anche su altre grandi questioni, non è stata portata a pienezza:  vi sono gravi lacune anche nel sistema normativo che non agevolano, e in taluni casi non consentono, non solo il pieno rispetto dell’articolo 27, ma nemmeno dell’art. 3, secondo cui «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale». Tutti, senza alcuna esclusione.

Ma più che nelle lacune normative, la mancata attuazione del principio rieducativo della pena parte da un mancato progresso culturale e sociale, che mette in luce come il sentire più diffuso delle persone riguardo a chi commette un reato si spinga maggiormente verso un desiderio di esclusione, separazione, distanziamento, repulsione, allontanamento, invece che di recupero, accoglienza, riabilitazione, risocializzazione.

Se, da una parte, il pensiero della maggioranza del paese va verso la stigmatizzazione definitiva di chi ha commesso un reato e la sovrapposizione del concetto di colpevole con quello di colpa, dall’altra parte, il meccanismo processuale che infligge una sanzione non consente alcun riconoscimento, non assegna nessuno spazio alla vittima. Vittima che, nella maggior parte dei casi, anche a fronte della condanna dell’autore del reato, non viene raggiunta da alcun tipo di riconoscimento del danno: il danno subito non viene riparato, lasciando così un’infinita, eterna condanna alla fissità del male nel momento in cui fu commesso. Nessuna evoluzione possibile.

Tutto questo pone un problema enorme alla società, perché di fatto la sanzione penale non produce alcun cambiamento e dunque rischia di rendersi inutile anche se molto costosa in termini di gestione complessiva.

Senonchè, sin dal 1999, grazie a una normativa internazionale emanata dalle Nazioni Unite, dal Consiglio d’Europa e dall’Unione Europea, sono circolati principi base, raccomandazioni, linee guida, manuali e altri strumenti, volti a sollecitare dappertutto l’adozione di programmi di Giustizia Riparativa. Gli obbiettivi sono in parte identici a quelli classici dei sistemi penali democratici: la prevenzione del crimine, il ristabilimento dell’ordine sociale, la promozione della sicurezza sociale, la risocializzazione dei colpevoli. Sono, però, arricchiti da una prospettiva inedita sul crimine, visto come un evento che coinvolge reo, vittima e comunità, un po’ come questo virus, che sta insegnando alla sanità che la malattia non riguarda solo il medico e il paziente, ma la società.

In particolare desidero riportare la definizione di restorative justice contenuta nella risoluzione n.12/2002 del Consiglio economico e sociale dell’Onu, recante i basic principles in argomento, molto simile a quella che compare nella direttiva 2012/29/UE: con giustizia riparativa s’intende «qualsiasi procedimento che permette alla vittima e all’autore del reato di partecipare attivamente, se vi acconsentono liberamente, alla risoluzione delle questioni risultanti dal reato con l’aiuto di un terzo imparziale». 

Si fa strada un nuovo modello di giustizia, valutato come più efficace, per incidere da una parte sulla responsabilizzazione del reo e dall’altra sul soddisfacimento della vittima, e dunque atto, in ultima istanza, per fare giustizia nel modo più adeguato. Partecipare attivamente, insieme, in modo libero e volontario per riparare le conseguenze del reato, in modo da reintegrare sia il reo che la vittima nella collettività, e ricostruire un futuro di osservanza dei precetti penali: sono questi, per la normativa internazionale, gli aspetti salienti della giustizia riparativa. 

Come si può ben comprendere sono precetti che perfezionano, portandola a compimento, la norma della Carta Costituzionale, che indica la sanzione come uno strumento volto a educare e garantire un futuro sia alla vittima che al reo.

All’interno del paradigma della giustizia riparativa, nella definizione dell’Onu, compare anche la pratica della mediazione quale strumento più raffinato, che consente in modo particolare il  concretizzarsi del modello riparatorio, anche se non ne esaurisce il completo significato. 

La restorative justice viene anche chiamata giustizia dell’incontro. Il modo in cui la mediazione lavora per la ricucitura del patto di cittadinanza e per ristabilire la comunanza infranta consiste nel creare un luogo per la narrazione, per l’ascolto, per l’incontro di parole. È la dimensione necessaria per riallacciare il nodo spezzato. L’incontro fra vittima e reo permette di ricostruire in modo condiviso ciò che è accaduto, permette di raccontare e di raccontarsi alla ricerca di una comprensione della realtà e soprattutto di un mutuo riconoscimento di ciò che ciascuno ha vissuto. È uno spazio dialogico nel quale ricostituire, insieme con l’altro, la dignità e il proprio nome, trasformando la solitudine, il vuoto e l’esperienza di separazione a cui il conflitto riconduce.

La giustizia riparativa, quindi, lavora sulla responsabilità morale verso l’altro, si preoccupa per i diritti umani ed è il richiamo a un’umanità ancora non compiuta nello Stato.

Pubblicato sul numero 55 della Falla, maggio 2020

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