Gianluca Costantini inizia a disegnare e dipingere alla fine delle superiori. Ragazzo di provincia con pochissime possibilità economiche, viene «salvato dal disegno». Le sue prime pubblicazioni risalgono al 1993, durante il secondo anno all’Accademia di Belle Arti: in quel periodo ricercava uno stile decorativo e si dedicava al fumetto underground. Nel 2001, un viaggio nella Sarajevo appena uscita dalla guerra civile sposta la narrazione dai mondi onirici delle prime pubblicazioni agli eventi di attualità del Medio Oriente.
Sei stato accusato di terrorismo dal governo turco e di antisemitismo dall’estrema destra americana per il tuo lavoro artistico militante. In che modo per te politica, arte e attivismo si intrecciano? Pensi che in Italia ci sia un’arte militante?
I diritti di disegnatorə, fumettistə e vignettistə, sono sempre in pericolo sotto le dittature. In passato moltə sono statə uccisə e la situazione è pericolosa in tanti Paesi.
Io sono stato accusato di terrorismo in Turchia: essendo italiano non mi è successo nulla, ma alcunə disegnatorə turchə sono statə arrestatə oppure non hanno più potuto pubblicare e i loro social sono controllati.
Con CNN è avvenuta una strana storia: un Capodanno scrissi sui social che non volevo più parlare di cose tristi e che da quel momento avrei fatto solo vignette dedicate allo sport. Tutti mi sfottevano perché di sport non capisco nulla. Un redattore mi chiamò dopo aver visto delle vignette su Twitter per chiedermi di usare lo stile di quelle politiche per commentare lo sport. Iniziai con le Olimpiadi Invernali in Corea e proseguii con eventi come i Mondiali di calcio in Russia o il Roland Garros. In quel periodo il canale era sotto attacco per le sue posizioni anti Trump e purtroppo si creò un pretesto che mi coinvolse: un profilo filo-siriano pubblicò un post, falso, che leggeva in chiave anti ebraica una mia immagine sulla situazione palestinese. Il post fu subito ripreso dagli uffici di Steve Bannon e usato contro CNN, accusata di ospitare un autore antisemita. CNN non aveva, stranamente, una politica di difesa a proposito, così si è interrotta la collaborazione.
L’arte, per quanto mi riguarda, è sempre politica: quando si osserva un quadro del Rinascimento si deve essere consapevoli del messaggio politico che c’è dietro. È una visione naif quella che vuole gli artisti vivere in un loro mondo: il nostro compito, anzi, dovere, è cercare di cambiare le regole grazie a una visione differente. Mi interessa l’arte che interagisce con la comunità, l’arte che condivide e non impone, che naviga nel disagio, nel conflitto, nell’aiuto all’altrə nello spazio politico e civile. L’arte mi aiuta a non guardare dall’altra parte.
Ho scoperto con il tempo che i miei disegni facevano del bene non solo alle persone direttamente interessate, ma anche a chi aveva bisogno di conforto nella loro rete: familiari, amichə, attivistə. Me ne sono accorto quando hanno cominciato ad arrivare dall’Arabia Saudita lettere di madri che mi ringraziavano per quello che avevo fatto per i loro figli. E ho pensato che l’aiuto che può dare il disegno è anche il senso di vicinanza, oltre che il supporto a una campagna. I disegni di Patrick Zaki non sono serviti specificamente a lui, perché non li poteva vedere: sono serviti a tuttə lə altrə.
Quali sono i tuoi modelli stilistici?
Il fotografo anarchico Ernst Friederich è stato fondamentale per creare il mio nuovo modo di raccontare attraverso l’uso di un solo disegno e la scrittura. Il fumettista Aleksandar Zograf mi ha fatto capire che potevo raccontare qualsiasi cosa attraverso il disegno e l’artista cinese Ai Weiwei che non si può stare zitti se si vuole difendere la propria e la libertà altrui. Poi, inarrivabili, per me ci sono William Blake, William Morris e Moebius.
Cosa ti ha spinto a raccontare proprio la storia di Patrick?
Il 7 febbraio del 2020 alcuni attivisti egiziani mi contattarono, volevano chiedermi un’immagine per un ragazzo egiziano appena arrestato all’aeroporto del Cairo. Lui proveniva dall’Italia, dove studiava. Disegnavo da anni le persone che scompaiono in questo modo, così lo feci anche per questo ragazzo.
Il giorno successivo l’immagine diventò virale e accompagna tuttora la richiesta di libertà per Patrick. È diventato una stampa di 30 metri in Piazza Maggiore, una sagoma comparsa in tutte le città d’Italia, un aquilone che ha volato come simbolo di libertà e infine un graphic novel per Feltrinelli. È un disegno importante per molte persone e una bandiera per i diritti umani.
Nel poster di questo mese Zaki è di spalle, con il volto girato verso chi osserva a chiedere: «Torno?». È una domanda ambigua, più didascalica della sua situazione o più di critica verso i rapporti Italia-Egitto?
È un messaggio di speranza ma anche di grande dubbio, non si sa cosa succederà, come andrà il processo. Ma Patrick vuole tornare e noi vogliamo che torni.
Perseguitaci