Filippo Turetta non esiste.

Non so quale configurazione dell’algoritmo di TikTok bisogni avere per arrivare a questo punto, ma scrollando tra recensioni di prodotti skincare e spezzoni di film potrebbe capitarvi sottomano questa notizia strana: è così che ho scoperto, a poco più di un anno dal femminicidio di Giulia Cecchettin, che il suo assassino non sarebbe reale.

Questa teoria del complotto ha iniziato a girare su TikTok qualche mese fa, e alimentata da confronti video e ricostruzioni facciali, ha come obiettivo il farci aprire gli occhi e realizzare che Filippo Turetta non sia una persona reale, bensì un attore ingaggiato per sottoporsi a interrogatori e processi, anzi più attori che si sostituiscono dall’arresto al dibattimento. Le prove sarebbero nelle foto pubblicate sui suoi social quando era in libertà, giudicate completamente diverse dalle immagini divulgate dei suoi interrogatori; secondo i sostenitori di questa teoria ci sarebbero differenze oggettive tra il suo volto di un anno fa e quello odierno, differenze troppo forti per non essere altro che un effettivo cambio di attori, in una recita invisibile a noi dormienti ma limpida agli occhi di pochi eletti.

Il maschile non è usato a caso in questa occasione, la stragrande maggioranza delle persone che sostengono questa teoria sono uomini, con profili interi (ovviamente anonimi) dedicati a svelare la cospirazione che ha creato il personaggio di Filippo Turetta, a tutela di tutti i giovani uomini italiani, castrati e messi all’angolo, accusati di essere complici di un sistema, perché è così che Turetta viene raccontato. La fiaba oscura è finita e quel che rimane è il tentativo di sottomettere l’italica mascolinità facendo passare qualche sparso caso di cronaca come emergenza femminicidi. Se quindi Turetta non è reale, non è reale neanche la morte di Giulia Cecchettin, quasi fosse anche lei un’attrice ingaggiata per un mese per prestare il volto a una sceneggiata e poi scomparsa nel nulla; non è reale l’impegno della sua famiglia, e neanche la rabbia esplosa in tutto il paese, la nostra rabbia. Scacco matto femministe, direbbe qualcuno.

Occorre precisare infatti che non è ben chiaro perché questa teoria abbia avuto diffusione, ma in moltissimi casi il commento ricorrente è proprio questo: il femminicidio di Giulia Cecchettin non è altro che una messa in scena per far sembrare una situazione molto peggio di quanto non sia in realtà, di modo da convincere tuttə che il femminicida sia ovunque e potenzialmente chiunque, che ogni uomo sia a modo suo colpevole. Una strategia folle per mantenere un presunto stato di minaccia e sospetto nei confronti del genere maschile.

Non è la prima teoria del complotto diffusasi online che crede che dietro fatti di cronaca, anche piuttosto innocui, ci sia una macchinazione della sinistra globalista: il progetto urbanistico della città dei 15 minuti servirebbe a indottrinare al marxismo, l’acqua del rubinetto è contaminata con estrogeni che farebbero diventare gay le rane e lə bambinə, l’olio di semi ridurrebbe drasticamente la fertilità delle donne… se si scava su internet sembra che praticamente nulla sia più come crediamo, che tutto serva a un preciso scopo, al mantenimento di un sistema. Nel nostro caso, di quale sistema si parla? Guardando a questi uomini è evidente che la risposta, per loro, è un sistema che soffoca gli uomini, che rende impossibile il rapporto con le donne perché queste hanno ormai pretese assurde, che il femminismo si è spinto troppo in là – insomma, tutti i tipici ragionamenti da incel in erba – per poi arrivare alla conclusione successiva: per mantenere questo status quo è necessario mettere in scena l’ assassinio efferato di una studentessa ventenne per mano di un ragazzo come tanti.

Ora, chi di noi ha ancora un poco di capacità di lettura della realtà sa benissimo che l’unico status quo che la politica e la giustizia hanno tutelato finora è quello in cui è ancora normale essere stalkerata e morire ammazzata perché l’ex fidanzato non accetta di essere stato lasciato, per poi subire un giro di vittimizzazione secondaria su qualsiasi piattaforma esistente, in cui viene raccontato quanto la vittima in questione sia stata troppo dura o troppo sottomessa, che non doveva accettare l’ultimo incontro chiarificatore, che alla fine è colpa sua se ha fatto quella fine.

Poco dopo la morte di Giulia si è ripetuto che ad averla uccisa non è stato un mostro, ma un figlio sano del patriarcato. Eppure, questa vicenda online ci porta in una realtà in cui questi figli sani non esistono del tutto, questi uomini immersi fino al collo nella cultura dello stupro e che si sentono in diritto di disporre a piacimento delle donne nelle loro vite sono un’invenzione. Esistono solo i mostri, meglio ancora se immigrati e non bianchi.

Mentre questa teoria rimbalza da un angolo all’altro di TikTok Turetta è stato condannato all’ergastolo, e ad essere diffuse nei media mainstream non sono tanto i confronti della sua faccia a distanza di mesi, quanto piuttosto le ragioni che avevano portato Giulia a interrompere la relazione, scritte nel suo diario. Leggendole ho pensato che non ci fosse scritto nulla di sconvolgente, ma dopo questo breve momento di desensibilizzazione al tema – perché provateci voi altrimenti a vivere una vita normale sentendo queste cose tutti i giorni, coscienti che dall’assassinio di Giulia Cecchettin ad oggi ci sono stati oltre cento altri femminicidi – ho ripensato alla mia compagna di liceo che un giorno è scoppiata a piangere durante l’ora di italiano perché il suo ex si era appostato sotto casa sua la sera prima. Sempre dando per buona la teoria del Turetta attore, chi ha orchestrato il complotto non ha scelto motivazioni assurde per la rottura tra i due protagonisti, ma tante piccole cose quotidiane che da anni si prova a contrastare e a far capire che costituiscono solo il primo passo verso forme di violenza ben più gravi. Il diffondersi di questa teoria online sembra voler far passare il messaggio che il ricatto psicologico e comportamenti ben oltre il limite dello stalking siano cose normali da accettare all’interno di un rapporto, e che la rabbia sia tutto sommato giustificata quando unə partner prova a sottrarvisi.

Nonostante i nostri sforzi ci sarà sempre chi preferirà credere a una recita con attori che si sostituiscono piuttosto che alle nostre parole, a quelle delle famiglie delle vittime, a tutte le testimonianze di violenza quotidiana che nei movimenti siamo abituatə a sentire ogni giorno, ci sarà sempre qualcuno disposto a credere a una cazzata colossale piuttosto che ammettere di essere stato misogino e violento, parte del problema col dovere di impegnarsi in prima persona. A fare impressione è soprattutto questo processo di normalizzazione della violenza, dalle cose più semplici ai crimini, raccontati prima come errori, raptus, e infine come mai avvenuti: dalla minimizzazione alla negazione totale di quella che sì, è un’emergenza femminicidi in piena regola.

Ricordarsi di questo potrebbe suonare inquietante e far sembrare vano lo sforzo per sconfiggere la violenza di genere. Il lavoro costante di sensibilizzazione sul tema potrà far svegliare in tantə, ma nessun rumore potrà mai svegliare chi finge di dormire. Eppure questa teoria del complotto ci mette davanti i nostri avversari in maniera limpida e senza ombre: le loro bugie online ci raccontano della paura di passare in secondo piano, della perdita del contatto con la realtà, di una rabbia puerile e insensata davanti a una lotta sempre più forte, capace di scuotere i loro animi al punto da produrre narrazioni alternative completamente senza senso. Né c’è modo di scalfire queste narrazioni alternative: in un normale processo giudiziario, sta all’accusa provare che il fatto contestato sia avvenuto. Tuttavia, nel pensiero complottista è strutturale invertire le parti in confronto all’interno di un giudizio: non sono loro che devono dimostrare come il fatto (la finzione intorno a Giulia Cecchettin e Filippo Turetta) esista, ma siamo noi a dover provare il contrario. Allo stesso tempo, però, il contrario non può essere dimostrato proprio perché l’occultamento del complotto è parte del complotto stesso.

È chiaro che il dibattito non avviene sullo stesso piano, e non solo perché da un lato c’è una verità e dall’altro una menzogna, ma perché davanti a centinaia di attivistə e persone che mettono la faccia in questa lotta si sceglie la via del lurking, dell’anonimato, rendendo difficile distinguere i singoli individui all’interno della massa. Si sceglie così di mantenersi al sicuro nelle proprie convinzioni per non ammettere di trovarsi più in un contesto dove non si è più il centro del mondo.

Se il movimento femminista dice che i mostri non esistono e sempre più uomini online non si sentono figli sani del patriarcato (non che le opinioni delle due parti abbiano la stessa valenza sul tema) allora cosa resta di reale? Dopo mesi da quando lo abbiamo gridato in piazza è ancora necessario ripeterlo, ma dobbiamo anche domandarci come relazionarci con una fetta di popolazione che si rifiuta di riconoscere una realtà oggettiva e comprovata, preferendo credere che non sia neanche più colpa di pochi, un gruppo di persone mosse dalla paura di perdere un privilegio e di vedersi mettere in discussione su una parte della loro identità ed etica che non hanno mai reputato problematica, persone che hanno preferito sottrarsi al dialogo e rifugiarsi in un tunnel online in cui raccontarsi come le vere vittime di questa storia. Persone per cui, forse, il dialogo non è più un’opzione percorribile.