Se vi si chiedesse perché Giovanna d’Arco fu uccisa, probabilmente rispondereste stregoneria o eresia, e avreste ragione. Ma soffermandosi sui dettagli del suo processo, si può osservare un tema ricorrente, su cui i giudici hanno insistito con sempre più violenza e con cui infine hanno giustificato la condanna a morte: l’indossare abiti maschili.
Ripercorriamo rapidamente gli antefatti: Jeanne d’Arc è una contadina del villaggio di Domrémy-la-Pucelle, in Borgogna, e a sedici anni appena compiuti si presenta al capitano Robert de Baudricourt affermando di essere stata incaricata da Dio – per voce dell’arcangelo Michele, di Santa Caterina d’Alessandria e Santa Margherita d’Antiochia – di liberare il suolo francese dal nemico. Il capitano cede solo l’anno successivo e la spedisce sotto scorta a Chinon, dove risiede Carlo VII di Francia. Già in quest’occasione Jeanne si confonde in mezzo agli uomini d’arme per via degli abiti tipicamente maschili e del taglio corto dei capelli.
A Chinon viene interrogata da teologi dell’Università di Poitiers e da «venerabili signore», che ben hanno presente il precedente di Santa Marina di Bitinia – che aveva vissuto sotto abiti camuffati in un monastero maschile, passando per fra’ Marino – né Jeanne rappresenta un caso isolato: sue contemporanee sono Pierronne la Bretonne e Catherine de La Rochelle, anch’esse profetesse guerriere, e un secolo e mezzo dopo si colloca l’avventuriera basca Catalina de Erauso.
Ma è Jeanne che libera Orléans dall’assedio inglese e accompagna Carlo VII a Reims per l’incoronazione. Nel maggio 1430, tuttavia, è catturata dalla fazione borgognona, e alla fine dell’anno è in mano inglese.
Nel gennaio 1431 Pierre Cauchon, vescovo di Beauvais, avvia il processo con la partecipazione dell’Inquisizione francese e dell’Università di Parigi. L’obiettivo della corte sarebbe ottenere una confessione per eresia, sì da screditare Carlo VII. Una condanna per eresia e stregoneria (tra i due crimini i confini sono sfumati, quasi assenti) non comporta di per sé la morte: abiurare permette la riconciliazione con la Chiesa. Ad essere imperdonabile è il relapso, ossia il ricadere nell’eresia.
Da un lato, quindi, la parte ecclesiastica vuole una confessione, anche per non fare della ragazza una martire. Dall’altro la parte inglese, sempre più spazientita dalla resistenza e dalla sagacia dell’imputata, spinge per qualcosa in più: per questo Jeanne è incarcerata in un carcere laico e le è negato un tutore pur avendo meno di venticinque anni.
Il 24 maggio 1432, però, Jeanne abiura e promette di abbandonare le armi, le vesti maschili, il taglio corto di capelli, e ottiene il carcere a vita. Eppure il 27, mentre è in prigione, smette nuovamente di indossare abiti femminili e viene dichiarata relapsa. Consegnata al braccio secolare, per lesa maestà è condannata al rogo.
Sul motivo di tale gesto ci sono due versioni: in un caso, Jeanne avrebbe subito violenza, e sarebbe quindi tornata sua sponte, all’interno di una cella e sotto stretta sorveglianza, a vestirsi da uomo per proteggere la propria virtù; nel secondo caso l’avrebbero obbligata i carcerieri inglesi. Nuovamente interrogata, Jeanne sostiene la prima ipotesi.
Quale che sia la verità, è chiaro che un tale gesto rappresenta sì una misura di protezione dal pericolo maschile, ma anche uno strumento imprescindibile all’esercizio delle armi e del potere: Jeanne necessita di apparire uomo e soldato per essere considerata una pari dai soldati e per muoversi in libertà. Al contempo, proprio quegli abiti diventano la prova di un attacco all’inalterabile ordine sociale, il quale prevede una separazione in due generi con qualità e funzioni sempre più sclerotizzate.
E tanto basta per procurare la morte.
Immagini da storicang.it e da viqueria.com
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