A settantaquattro anni dall’entrata in vigore della Costituzione, e pertanto della democrazia, non abbiamo ancora capito la lezione fondamentale di ogni Stato di diritto: sono le istituzioni a dover essere salvaguardate. 

Con la rielezione di Mattarella, reduce da un settennato in cui si è caratterizzato per una buona gestione dello Stato, ciò non avviene. Sa d’amaro un’opinione pubblica che, anche laddove avverte qualche stridore procedurale, ringrazia Mattarella per il suo senso di responsabilità e magari addirittura esulta perché temeva destini peggiori. 

È questa solo un’altra sfaccettatura del vizietto più caro al Paese: l’uomo che ci salva, quando non l’uomo forte, è grazie al cielo sempre a disposizione. Eppure questa tendenza si adagia su un sistema che sta dimostrando non solo incapacità, ché da questa classe politica ce lo si aspetta, ma malafede. Non possiamo e non dobbiamo cedere alla retorica del «non c’era altra soluzione, i partiti non riuscivano a trovarla», perché proprio i leader di quei partiti avevano in buona parte dichiarato, fra le righe quando non esplicitamente, che sarebbe stata una buona strada la rielezione. 

E questo in tempi meno sospetti, prima che il buon Sergio iniziasse in tutti i modi a dichiarare che non ne voleva sapere (e in lui almeno il senso dello Stato trapela). Anche definirlo evento rarissimo ma necessario fa un po’ ridere, giacché se avviene due volte su quattordici elezioni non si può parlare esattamente di rarità, tanto meno se succede due volte di fila, le ultime due: nel nostro Paese due volte a momenti fanno prassi. Per chi avesse dei dubbi sulla tenuta del ragionamento, un esempio su tutti: alla rielezione di Napolitano la retorica era esattamente la stessa. Crisi sociale e finanziaria, incapacità dei partiti, la mancanza di un nome adatto, ecc ecc. Fosse vero questo, com’è possibile poi che alle dimissioni di Napolitano sia spuntato dal cilindro Mattarella, dipinto da giornali e partiti come figura perfetta per quel ruolo? Non si erano accorti che non era chissà dove ma stava già al palazzo della Consulta, come Giudice della Corte Costituzionale, eletto proprio dal Parlamento qualche anno addietro? Tanto valeva tirarlo fuori prima dalla ghiacciaia.

Sospetto che post Mattarella – sempre che non stia davvero scaldando la poltrona al neoliberismo – spunterà magicamente un altro nome, probabilmente un’altra anima persa che s’aggira per i palazzi da decenni e che improvvisamente apparirà agli occhi del mondo in tutto il suo splendore. 

Il fallimento oggi non è dei partiti, indegni, che fingono il mea culpa quasi chiedendo a Mattarella di impugnare la frusta, come fecero poi con Napolitano, applaudendo a un discorso in cui venivano accusati di essere degli incompetenti. No, il fallimento è della Repubblica. Un altro tassello del lento disgregarsi delle istituzioni viene via, ma ormai a sguazzare tra le macerie siamo tutte tristemente abituate.