Sono un italiano omosessuale 43enne e vivo negli Usa da 14 anni.
Non sono un esiliato, né un rifugiato politico, né vengo da un Paese in via di sviluppo o una zona di guerra; mi trasferii negli Usa nel 2007 per pura scelta e non ho avventure rocambolesche da raccontare. Eppure sento che in qualche modo la mia storia ha qualcosa in comune con quella di ogni migrante del mondo.
Che la migrazione sia una scelta o no, vi sono sempre forze che spingono a lasciare un Paese e forze che spingono ad approdare in un altro. Se entrambe queste forze superano quelle che ci inducono a restare nel nostro Paese di origine, si fa la valigia.
Nel mio caso, molte erano le circostanze che mi spinsero ad andarmene, alcune professionali, altre personali, ma tutte collegate fra loro. Come medico specializzando in pediatria, ero professionalmente insoddisfatto. Sotto il versante personale, a 29 anni, la mia omosessualità, più o meno accettata da familiari e amici, non era senz’altro celebrata né motivo di felicità, o frequente argomento di conversazione a casa. Temevo che il mio orientamento sessuale potesse ostacolare la mia carriera. Desideravo dei figli, ma il percorso omogenitoriale mi sembrava inaccessibile.
Parlando delle forze che mi attrassero verso gli Usa, non avevo conoscenze approfondite sul nuovo mondo, e col senno di poi il mio fu un completo salto nel vuoto. Pur essendo scettico su alcuni aspetti della cultura americana, avevo intuito che frequentare un corso di specializzazione negli Stati Uniti avrebbe aiutato la mia carriera di medico. Sapevo che avrei avuto l’opportunità non solo di acquisire nuove conoscenze e abilità, ma anche un’apertura mentale maggiore che avrebbe influito positivamente sulla mia evoluzione personale e professionale. Migliorare l’inglese mi avrebbe potenzialmente spalancato porte in tutto il mondo. Ma c’era di più. Sognavo di poter colmare il vuoto che sentivo a livello personale e sentirmi più sicuro di me.
Chiedevo troppo? A 29 anni feci le valigie e non tornai mai più. 14 anni dopo quel giorno autunnale del 2007 in cui approdai nel nuovo continente posso dire di essere riuscito, sia pur con enorme fatica, a ottenere tutto quello che desideravo. Sono sposato con un uomo meraviglioso che amo con tutto me stesso. Abbiamo 4 figli che mi danno ogni giorno enormi soddisfazioni e mi insegnano a essere una persona migliore. Ho un lavoro che, pur essendo molto duro, mi regala un senso di appartenenza e realizzazione. Ma soprattutto sono felice di chi sono, e orgoglioso del mio orientamento sessuale. I momenti difficili ci sono stati, e mi hanno portato a essere la persona che sono oggi.
Avrei potuto essere felice anche in Italia? È possibile, ma non lo saprò mai. Quello che so è che in Italia non avrei potuto adottare un bambino insieme a un compagno di sesso maschile perché la legge non lo permette. Non riesco a immaginarmi una vita in cui non sia un genitore.
L’aver deciso di buttarmi in un’avventura così difficile e con tante incognite mi ha fatto tirare fuori la grinta e mi ha aiutato a sbloccarmi. Quando mi trasferii qui, mi ritrovai per la prima volta nella mia vita solo, senza amici, senza genitori, potendo contare esclusivamente sulle mie forze, anche quelle che non sapevo di avere. Ciò mi ha spinto a diventare a poco a poco una persona nuova, determinata e sicura di sé.
Consiglierei ai giovani italiani di emigrare? Credo sia una scelta personale che ognuno debba fare per sé. Ma quello che mi sento di dir loro è questo: se vi sentite in un vicolo cieco, se il mondo intorno a voi vi sta dicendo che non potete ottenere quello che più desiderate, o essere chi veramente siete, non chiudetevi in voi stessi. Guardate avanti. Guardate altrove. Il mondo è grande e pieno di opportunità. Andate a cercarle.
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