Non fidatevi di chi dovesse venire a dirvi che la “Berlino gay” è quella di Schöneberg, lo storico quartiere gay di Berlino Ovest. È vero, qui si può trovare di tutto: bear, leather, “fistatori” mascherati, attempati signori con vezzosi foulard di seta color pastello. Molti con chiwawa di ordinanza, molti altri, se non gli stessi, con cockring in adamantio da 7kg acquistati negli innumerevoli sexy shop della zona, dove io stesso mi dilettavo a comperare il mio lubrificante preferito, marca Joy Division, così chiamata dubito in onore di Ian Curtis.

Questa è una Berlino gay un po’ stereotipata e più orientata oramai ad un pubblico senior, ma è giusto una delle infinite realtà in città. Non esiste infatti una Berlino gay. Esistono tante Berlino gay. Una molteplicità di mondi e situazioni che fa sì che si possa passare un’intera vita senza arrivare a conoscere chiunque, come accade solitamente nei nostri ambienti asfittici in Italia. Berlino è la città dove ogni “nicchia di mercato” ha i suoi luoghi ed eventi di riferimento.

C’è la Berlino più queer e gender free con realtà come la Tuntenhaus (la casa delle checche), una casa occupata, in buona parte da travestite. O ancora di locali come il Silver Future, dove un cartello all’entrata, simile a quello che durante la Guerra Fredda marcava il confine con Berlino Est, ci ricorda che stiamo abbandonando “il settore etero-normativo”, mentre su di un altro lì accanto campeggia un laconico “Ich liebe meine Vagina” (non credo abbiate bisogno della traduzione). Esiste però anche la Berlino fighetto-gay dei bar design, dove potrete incontrare i tipici tedeschi del cliché dell’omosessuale in carriera: biondo, senza un filo di barba, vestito con abiti firmati e con scarpe eleganti, naturalmente orribili (e probabilmente con la punta quadrata) – male quest’ultimo incurabile e trasversale a tutti i sessi e gli orientamenti del popolo tedesco.

E se si parla di Berlino come non ricordare ancora quella del clubbing che l’ha resa celebre in tutto il mondo con locali come il Berghain o il Watergate, dove noi italiani peraltro, quando si parla di serate gay, riusciamo a farla da padroni, grazie ad una “mafia gay” nostrana che oramai detiene il monopolio dell’organizzazione di tutti i party di maggior successo. Come Homopatik e Cocktail D’Amore, per chi ama musica elettronica, canotte, barbe, tatuaggi e, ça va sans dire, anche droghe. E se come il turista medio italiano – che non riesce a stare lontano dalla pasta anche quando va all’estero e scende a patti con il mangiare agglomerati polimerici spacciati per “gnotchi parmessana” o “paschta al peschto” – necessitate di punti fermi, come un po’ di sano trash o la Britney, potrete sempre trascorrere una serata Zum schmutzigen Hobby (“all’hobby sporcaccione”) a Friedrichshain.

Per quel che mi riguarda, ciò che ho sempre amato di Berlino, nonostante il mio animale guida sia oramai una pensionata coi bigodini di 78 anni e il clubbing sia un lontano ricordo, è il fatto che in molti casi ho potuto trovare assoluta convivenza, se non vera e propria integrazione, con il mondo degli animali fantastici: gli eterosessuali. Il che certo non significa appiattimento e omologazione: se penso ad esempio a serate come il Gegen, organizzata in quello che solitamente è un sex club, il KitKat, dove ci si può ritrovare a ballare fianco a fianco con una signora di mezza età completamente nuda, o a discorrere amabilmente, in un attimo di relax, in una stanza piena di sling.

Potrei continuare ore a parlare della mia esperienza berlinese ma non basterebbe l’intera Falla. Vi basti sapere che Berlino è, per antonomasia, la città dove si può trovare o ritrovare se stessi. Chiunque voi siate. Ma anche perdersi, come spesso succede, se ci si lascia trascinare dal turbine di queste mille Berlino. Anche io ho rischiato di farlo, ma alla fine sono riuscito a mantenere la rotta, forse anche grazie alle parole di Marion, l’acrobata ne Il Cielo sopra Berlino: “Qui sono straniera e tuttavia è tutto così familiare. In ogni caso non ci si può perdere: s’arriva sempre al muro”.

pubblicato sul numero 22 della Falla – febbraio 2017

immagine realizzata da Carmen Ebanista del collettivo artistico Gli Infanti