A distanza di oltre tre mesi dal ritorno al potere dei Taliban, la piega degli eventi in Afghanistan è tuttora incerta. Non è facile dire se il paese stia procedendo verso una relativa stabilizzazione, pur sotto la cappa oppressiva dell’Emirato, o invece sprofondando in una nuova spirale di violenze.
Ciò che è evidente è che l’Afghanistan va verso la crisi economica e sociale più grave degli ultimi vent’anni. La fuga di capitali, l’esodo dell’intellighenzia, il blocco degli aiuti internazionali allo sviluppo – salvo quelli strettamente umanitari – hanno portato al culmine la crisi economica già in atto. L’inverno è alle porte, e larghi strati della popolazione non dispongono di sufficiente accesso a necessità primarie, come riscaldamento, risorse alimentari e cure mediche. Il nuovo governo – in assenza dei finanziamenti internazionali che costituivano una voce maggioritaria del budget e viste anche le sue carenze tecniche e amministrative – non sembra in grado di prevenire una catastrofe umanitaria.
E non è chiaro neppure quale potrà essere l’entità degli aiuti esterni, dati i difficili rapporti fra Talebani e paesi donatori.
Sul piano diplomatico, l’Emirato talebano non ha ottenuto riconoscimenti se non quello, di fatto, del Pakistan, da sempre suo sostenitore. Nonostante l’interesse di diverse potenze regionali e globali a collaborare con i Taliban – tra le quali Iran, Russia, Cina e gli stessi USA – sul fronte del contenimento di gruppi jihadisti globali come lo Stato Islamico (Daesh) e Al Qaeda, il comportamento dei Taliban ha finora escluso ogni ritorno a relazioni normali. La repentina vittoria militare ad agosto, senza alcun processo negoziale a sancire un passaggio di consegne, e la successiva scelta di non condividere il potere con altri individui e gruppi politici, ma di nominare un esecutivo formato esclusivamente da esponenti Taliban di provata militanza – praticamente tutti di etnia Pashtun – disattendendo ogni standard di inclusività e rappresentatività dell’amministrazione in termini di origine regionale, etnica o genere, hanno reso ancor più inaccettabile il governo Taliban alle diplomazie internazionali. A ciò si sommano ovviamente le pratiche discriminatorie e repressive attuate dal movimento fondamentalista nei confronti di donne, intellettuali, artistә e chiunque non si conformi al loro modello di società, rispecchianti quasi in toto quelle del loro precedente periodo al potere, tra il 1996 e il 2001.
Da agosto, i Taliban hanno costretto la maggioranza delle donne impiegate negli uffici governativi e nelle organizzazioni umanitarie a non recarsi al lavoro, ridotto a poche, coraggiose eccezioni la loro presenza nei mass media, e sospesa a tempo indeterminato l’educazione secondaria femminile. La leadership talebana ha sinora evitato di ufficializzare su base ideologica alcune tra le sue scelte più controverse, limitandosi più spesso a qualificare le disposizioni prese come provvisorie e a motivarle con argomentazioni tecniche, come il rischio di molestie nei confronti delle donne lavoratrici da parte «dei meno disciplinati» tra i loro miliziani, o la necessità di aggiustamenti infrastrutturali agli edifici scolastici per poter permettere alle ragazze di frequentarli separatamente dai maschi. Questo approccio si è manifestato in diverse sfumature di repressione e segregazione di genere, a seconda della maggiore o minore flessibilità delle autorità talebane locali. Nella maggioranza dei casi, comunque, per le donne afghane si tratta di un traumatico passo indietro. In particolare, l’impossibilità di studiare, lavorare e progettare la propria vita stanno avendo un impatto devastante su chi era precedentemente in grado di farlo: donne residenti in aree urbane e alcune zone rurali meno conservatrici, oltre alle ragazze più giovani, cresciute spesso con aspettative e mentalità radicalmente in conflitto col progetto di società talebano.
I Taliban hanno tentato un uso strumentale delle tematiche rilevanti per la comunità internazionale, vedendole come merce di scambio per negoziare la rimozione delle sanzioni finanziarie contro di loro, il ripristino degli aiuti economici destinati al precedente governo e un futuro riconoscimento diplomatico. Specularmente, la comunità internazionale non si è mostrata disposta ad aperture finché i Taliban non daranno garanzie sul piano dei diritti.
Intanto, sul piano del controllo sociale, la situazione rimane tesa. Soffocata, almeno per il momento, ogni resistenza armata, i Taliban devono comunque reprimere le proteste della società civile. Al loro iniziale atteggiamento conciliante verso la popolazione delle città di recente conquista è subentrato un crescente nervosismo, concretizzatosi in episodi di violenza verso quei segmenti per loro incorreggibili della società, quali personalità dei mass media, musicistә e attivistә per i diritti delle donne. L’intensificarsi degli attentati compiuti da Daesh contro minoranze religiose, centri educativi e gli stessi Taliban permetterà all’Emirato di giustificare ulteriori giri di vite.
In questo contesto, moltә Afghanә contemplano la possibilità di una fuga. In centinaia di migliaia hanno lasciato il paese negli ultimi tre mesi o stanno cercando di farlo, ostacolatә però dalla quasi totale assenza di consolati in grado di rilasciare visti e dall’aumento esponenziale dei prezzi dei pochi biglietti aerei disponibili, oltre che dai ferrei controlli ai confini che rendono l’espatrio clandestino sempre più pericoloso.
Tra le categorie più a rischio figurano certamente le persone appartenenti alla comunità LGBTQ+. Comunità che, mai ammessa legalmente, è vissuta sotto il precedente governo nella quasi totale clandestinità, ma a partire da agosto è specificamente minacciata di persecuzione da parte dei Taliban.
Non solo appare probabile che il loro governo applichi le punizioni capitali previste dalla Shari’a per l’omosessualità, ma il mai sopito atteggiamento di pregiudizio e stigma sociale sta riprendendo forza. Nel nuovo contesto, l’assenza di monitoraggio e supporto da parte di organizzazioni per i diritti e l’orientamento ideologico delle istituzioni statali incoraggiano la pratica della violenza privata a opera di familiari o estraneз. Le persone come donne indipendenti e LGBTQ+, che si trovano a uscire dal proprio ruolo di genere come costruito e imposto dalle norme socio-religiose si trovano esposte a un rischio estremo, e che può provenire da più direzioni. Famigliari che non accettano le scelte di vita di una persona all’interno del nucleo possono denunciarla alle autorità, certз di una punizione esemplare. Per i Taliban, invece, la violenza portata da privati contro le donne emancipate e la comunità LGBTQ+ contribuisce a spingere questз indesideratз a lasciare il Paese.
Il 30 Ottobre, un primo gruppo di 29 persone LGBTQ+ è arrivato in Gran Bretagna nell’ambito dell’Afghan Citizens Resettlement Scheme, grazie agli sforzi del governo inglese e di diverse associazioni di difesa dei diritti LGBTQ+, tra cui Rainbow Railroad e Stonewall.
L’evacuazione di tutte le persone a rischio è ovviamente prioritaria, ma non sufficiente sul lungo termine.
Di fronte alla drammatica situazione in Afghanistan, la comunità internazionale deve uscire dall’impasse in cui si trova. Occorre negoziare un rinnovato ruolo e una presenza delle istituzioni internazionali nel Paese, che consenta di ricostruire gradualmente ma in maniera stabile, meccanismi di monitoraggio e protezione dei diritti umani. Questo non significa rassegnarsi a riconoscere l’Emirato Taliban, ma certamente avviare con esso un confronto politico anche per poter aver voce in capitolo sulle sue future scelte e andare oltre a degli aiuti meramente emergenziali; riprendere il finanziamento di un budget amministrativo che permetta di erogare servizi pubblici alla popolazione, di continuare a investire nell’educazione e nella sanità – gli unici, parziali successi di 20 anni di presenza internazionale – e di cercare di garantire alle future generazioni aspettative di vita libera e dignitosa nel proprio Paese.
Immagine 3 da https://cupofgreentea.it
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