Il corpo, il fallo e la vendetta della Dea Bianca.

Gingillandomi con la digitale purpurea, la porto presso la punta del naso odorandola, di quando in quando, ed elargendo sorrisi benevoli, giusto per buona creanza, alle amiche impegnate in verdi cicalecci. I massimi sistemi, l’afelio e il perielio, il cielo delle stelle fisse: pensieri che salvano dal tedio quando l’occhio improvvido mi fugge su di una vecchia stampa, poggiata di sghembo sul tavolino di cristallo Baccarat. Il Resto del Carlino. TIRO CON L’ARCO. Il trio delle cicciottelle sfiora il miracolo olimpico. Taci. Non odo parole che dici umane, solo Gutenberg rimestare nel sepolcro. La soglia è varcata, oscura la selva selvaggia in cui roviniamo in basso loco. Penso a Botero quando mi s’appresta la lonza, bella e leggera, che soffia i versi della gogna virale Stai facendo un video? Bravoh. Vergogna, stigma, Tiziana Cantone mi fissa con occhi morti: sono la sua assassina. Il leone d’appresso, poco clemente, ruggisce nella neolingua del Grande Fratello; dalle fauci pare muoversi uno spirito soave e pieno d’amore che va dicendo all’anima: se la moglie ti tradisce devi lasciarla morta nel letto. Daria Bignardi. Né più mai toccherò paura sì viva, la lupa, belva tra le belve, temibile per il manto eterodosso: quei capelli troppo corti, troppo grigi, troppo radical chic, troppo potenti, troppo ricchi, troppo sposati a Luca Sofri, troppo renziani. Mesmerizzata dal vortice di botanico panico, m’appare lei, Maria Callas, in quel tempo di sua vita mortale. Se non avesse ingerito la tenia? Se fosse rimasta un’immigrata greca sovrappeso e un po’ pelosa? Sarebbe, oggi, la Divina? Le avrebbe Onassis rovinato vita e carriera? Il verme ha fatto la donna e io non so più cosa sono, cosa faccio. Anche il veltro è un fallo, nessuna profezia ci salverà: cercasi Sibilla Cooman, disperatamente. Ho sciupato il fiore a forza di contorcere le mani tra gli oscuri pensieri, le amiche del circolo mi guardano storto, l’inferno sono gli altri. Nel ricomporre un algido sorriso della festa, intravedo il profilarsi dell’ultima dea: dal malchiuso portone è la speranza che s’indovina, tra l’odore dei limoni. Stolta io a non accorgermi che ancora sono tra le stelle fisse, in cui dio è motore immobile, il primo, il maschio. Aristotele è morto da un pezzo, i Padri gli sopravvivono ma le amazzoni hanno già incoccato le frecce: la Dea Madre riconosce il proprio volto come l’idea dialettica che ritorna in sé dopo essersi negata. Placato l’animo in burrasca, inspiro nuovamente il peccato della digitale purpurea e non mi resta che aspettare: d’altronde, la nottola di Minerva arriva sempre sul far della sera.

pubblicato sul numero 20 della Falla – dicembre 2016