di Mattia Macchiavelli
“Sono morta. Sono resuscitata. Sono la donna ai limiti del tempo, colei che partorisce, distrugge, preserva e fa rinascere. Dimmi cosa vuoi […] stai riposando pesantemente sul terreno fertile e umido, che ti risveglia e ti circonda, stai affondando sempre più in profondità, verso l’interno e verso il basso, nella foresta oscura”.
Nero. Solo parole. È la voce primordiale dell’eterno femminino, il timbro abissale di un infinito cosmico che richiama a sé. Così si apre Vem ska knulla pappa? (Who will fuck daddy?) di Lasse Långström, sincopato film del 2017: tecnicamente un documentario sperimentale ma nei fatti una vera e propria favola queer. Comincia nell’oscurità, nel grembo buio di un universo dominato solamente dalla voce della madre primigenia. Come nella mitologia indiana e nell’epica della Dea Bianca, ritroveremo durante tutto il documentario i riflessi di questa progenitrice ancestrale, onnisciente e impietosa: nella luna, nella terra, nella sessualità spregiudicata e libera delle protagoniste e dei protagonisti.
“Puoi vedere la luna? La luna vede tutto. Tutto quello che si nasconde nella notte lei illumina con la sua luce pallida. Lei ti aspetta. Viaggi sul fiume, sotto il fiume”.
Una luna dalla bulimica fame sessuale ci osserva. Ci guarda mentre si masturba. Vigila sul nostro viaggio vivendo di un’identità alchemica, quasi fosse il frutto proibito della segreta relazione tra Pierrot e il Gatto del Cheshire di carrolliana memoria. Uno sguardo vigile, amorevole, voluttuoso, eterno. Adagiati su di un fiore di loto cominciamo questo viaggio in un mondo surrealista, in cui l’incanto fiabesco e la carnalità di un sesso senza preclusioni si fondono per dar vita a un non luogo fatto di fascino e mistero. Siamo noi? Siamo parte integrante del documentario? Abitiamo il film abitando la vita? È possibile che quello inscenato sia un doppio viaggio, narrativo ed esistenziale: facciamo un lavoro su noi stesse procedendo, un passo dopo l’altro, nella narrazione. Siamo catapultate in una foresta popolata da peluches di unicorni, tacchi a spillo vertiginosi, My Little Pony colorati, dildo e incantesimi psicodinamici. Un luogo altro, occulto, a cui è possibile accedere solo attraverso la morte.
“Qui nel profondo, nel subconscio collettivo, il project manager di Majorna, l’archetipo, sta pedalando, sempre veloce, sempre in avanti, sempre barbuto, sempre completamente normale. L’uomo interiore ed esteriore. Dove sei diretto? Verso di me. Verso la tua inevitabile morte”.
Scopriamo di essere un uomo con la barba che indossa una tuta della Kipsta e pedala nella routine di tutti i giorni. Scopriamo di essere muscolosi, pelosi, irriducibilmente normali, la versione 2.0 degli uomini grigi di Michael Ende. Lo siamo, senza appello. Lo siamo tutte.
In questo viaggio frenetico incontriamo l’esplorazione dei corpi: conosciuti centimetro per centimetro attraverso gli sguardi, le carezze, i baci e la saliva. Riconosciamo il simbolismo cristiano risignificato attraverso le categorie del lesbismo e dell’analità. Incontriamo la fisicità del parto e l’assenza dei padri.
“Non vuoi più Dio Padre, non vuoi più il Padre della nazione: non possono portarti così come solo io posso, loro vogliono solo essere trasportati. La madre terra è la dominatrice che hai sempre desiderato, vuoi piegarti sotto la sua volontà.”
È l’apogeo di un rapporto sadomasochistico con la grande madre la meta a cui stiamo arrivando. Le ninfe della foresta, infatti, cantano di come il tempo della barba, simbolo di ogni maschilità, sia giunto al termine, di come tutte le barbe stiano bruciando.
“Sei bloccato in una forma che è sopravvissuta al suo scopo, la terra che tu hai abusato esige il tuo ritorno”. Sono proprio le forme a essere messe in discussione, contributo dopo contributo: la cristallizzazione dell’eterosessualità, l’irrigidimento della mascolinità, la quadratura perfetta della genitorialità, ogni steccato precostituito e imposto per plasmare una realtà che comincia a starvi stretta. Tutto si rompe, un capezzolo per volta, e tutto conduce a un punto di non ritorno. Le ciliegie. Ciliegie rosse, gustose, inserite con metodo all’interno dell’ano:
“Sei aperto a una conoscenza ricettiva, ti senti come se il tocco della terra ti penetrasse lentamente un po ‘ alla volta: il cosmo ti sta scopando”. Il piacere anale si fa così dispositivo della conoscenza, è un’apertura alla consapevolezza ultima del frantumarsi del mondo patriarcale. Se è dalla vagina della madre ancestrale che è nato il mondo, un nuovo universo potrà essere plasmato solo attraverso l’ano, solo attraverso un’analità diffusa e condivisa, un piacere anale che è godimento e rivoluzione.
È solo dopo le ciliegie che possiamo scorgere una dea enigmatica dalle molte mammelle, in un universo dalle influenze lynchiane. Solo dopo il sovvertimento dei dogmi della natura arriviamo a una luna che cessa di masturbarsi solo per farci dono della sua lacrima: “Il dispiacere è dato a te, ti amerai di nuovo […] così lo farai: piangendo”.
C’è infatti ancora un peccato originale che dobbiamo espiare e possiamo farlo solo nel dolore e nella morte. L’uomo barbuto in bicicletta arriva nella foresta oscura: “Come ci sei arrivato? Non stavi andando qui ma alla fine sei arrivato alla tua destinazione finale”. Nella foresta misteriosa viene sodomizzato, rasato, dipinto e infine sepolto nella terra, perché solo lì potrà essere digerito e riportato a nuova vita.
Tutto il documentario, nel suo continuo rimando tra interviste e inserti narrativi, è un climax dal sapore epico che ci conduce alla sodomia finale, alla consapevolezza ultima che il patriarcato lo si può decostruire e criticare, ma l’unico modo per sconfiggerlo è scoparlo.
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