Il mese che ho girato da solo per l’Iran è iniziato prima. Mia madre sbianca e con voce rotta dice «Se è una tua scelta», gli amici sfoggiano varianti di «Lo sai cosa fanno ai gay?», e infine «Ti invidio! Lo sogno da sempre». Seguo gruppi social per prepararmi, tutti entusiasti della cultura, storie di ospitalità che paiono finte e tante risposte: «è un paese sicuro, specie per le donne che viaggiano sole».

È marzo 2019, da un po’ l’Iran concede visti turistici più facilmente, c’è maggiore intesa con Europa e USA anche per l’accordo sul nucleare. Vero che l’anno prima Trump aveva stracciato i patti e ripreso le sanzioni, vero anche che i Paesi europei avevano criticato la scelta e il governo iraniano sperava ancora nella mediazione (al voto, l’anno dopo, vinceranno i conservatori con conseguente cambio di approccio).

Arrivo a Teheran di notte, consegno le carte per il visto e mi chiedo se quelli dall’altra parte del vetro andranno su google dove si trovano risultati sul mio attivismo gay. Mi dicono «Tutto ok. Aspetta cinque minuti e puoi andare, visto dematerializzato». Non un timbro, niente. Esco chiedendomi se il controllo del regime funzioni proprio così bene.

L’indomani mi aspetta Amir, un amico iraniano conosciuto online. Sta facendo il servizio militare, ma quel giorno è libero e mi porta in giro. Tehran mi appare meno insolita di come me la aspettassi: un po’ meno caotica del Cairo, dove avevo lavorato. Giriamo per cambiare i soldi, Amir mi presta una SIM con internet, ho il mio VPN ed esploro un po’. Grindr è bloccato ma c’è Scruff: profili neri come da provincia italiana, ma c’è anche chi mette la faccia. «Qui ai gay danno problemi se stanno in pubblico, si sposano tra loro o fanno politica, il resto lo lasciano fare». «Ok…» Mah, penso.

Intanto andiamo verso il museo archeologico che pure è tirato a lucido. In una teca c’è una maschera millenaria che sembra Groot dei Guardiani della Galassia, lo dico ad Amir e canticchio la canzoncina, accenno anche un balletto. Lui lancia un’occhiata alla guardia e mi sussurra «stop it». Non si può ballare in pubblico. La guardia è tranquilla e Amir mi dice di non agitarmi: sono un turista e con gli ospiti c’è più tolleranza. I giorni che seguono divento uno che posta commenti entusiasti nei gruppi social. Il culto dell’ospitalità è reale: c’è lo sconosciuto del treno che nemmeno parla inglese e si informa se avessi già un b&b, mi invita a dormire a casa sua (accetto) e organizza una serata con i suoi amici per puro stare insieme, mi fanno saltare la fila nei ristoranti (e vergognare) perché sono straniero, ci sono le persone che per strada, incoraggiate da uno sguardo, mi rivolgono la parola educatamente solo per fare due chiacchiere, senza nessuna richiesta se non ogni tanto quella di dire che «non siamo come si immagina». Una di loro è una ragazza, quel giorno sono insieme a Gladys, signora colombiana in pensione, militante femminista, che sta viaggiando da sola per «sentire la voce delle donne di qui. Il peggio che possiamo fare è farle sentire sole». La ragazza ci racconta che sogna di emigrare in Canada, Gladys, si vede, è un po’ contrariata: «Sognano di andare dove i diritti ci sono invece che lottare qui, ma quei diritti sono sempre frutto di lotte, di altri». Io dopo un mese lì penso che l’attivismo degli iraniani è carsico, sta nascosto aspettando il momento, intanto appare in piccole resistenze quotidiane, in centimetri di libertà guadagnati e difesi ogni giorno, che è una fatica e che comunque spero che Amir riesca a venire in Italia.

Immagine in evidenza: commons.wikimedia.org