Scritti corsari di autodeterminazione. Verso le sciopero globale delle donne dell’otto marzo

di Elisa Manici

L’otto marzo ci sarà uno sciopero internazionale delle donne, alla cui organizzazione, al momento di andare in stampa, stanno contribuendo attiviste di sedici Paesi, dall’Argentina alla Corea del Sud, passando per Italia, Turchia e Polonia (www.parodemujeres.com). Ma che cos’è esattamente, uno sciopero delle donne?

Il concetto in sé non è una novità, anzi, nella cultura occidentale è un topos letterario da un paio di millenni, pur riferendosi solo alla sfera sessuale. Nella Lisistrata, opera del commediografo greco Aristofane, andata in scena per la prima volta nel 411 a.c., la protagonista si accorda con donne di altre città greche per far terminare la guerra del Peloponneso: si rifiuteranno di fare sesso con gli uomini finché non tornerà la pace tra le poleis.

Il precedente storico a cui in genere si fa riferimento è invece molto recente: il 24 ottobre 1975, a partire dalle due del pomeriggio – l’ora in cui iniziava il lavoro gratis – il 90% delle donne islandesi si astenne sia dal lavoro retribuito che da quello di cura per protestare contro le differenze salariali che c’erano tra donne e uomini. Due gli intenti raggiunti: innanzitutto, smuovere le acque in Islanda, in cui da allora il divario di genere sulle paghe si è molto ridotto (ma non ancora azzerato, purtroppo nemmeno nelle nordiche terre a cui noi pensiamo come il sol dell’avvenire il percorso verso i pari diritti è del tutto compiuto). Il secondo, senz’altro inconsapevole, è stato creare un precedente che serve ancor oggi da esempio e da incoraggiamento alle donne di tutto il mondo.

Le discriminazioni subite dalle donne sono talmente pervasive a ogni livello dell’esistenza, che spesso non ce ne rendiamo nemmeno conto, oppure le consideriamo sciocchezze. Un esempio: gli assorbenti mestruali hanno l’iva al 22%, come un tablet, e la proposta di legge di Pippo Civati per ridurla al 4%, considerandoli un bene di prima necessità, forse l’unica cosa utile che abbia fatto in tutta questa legislatura, è stata accolta da una maggioranza di spernacchiate e “benaltrismo” a gogò. Anche se “patriarcato” sui media mainstream è considerata ormai una parola tabù, molto novecentesca, e che solo le erinni invasate continuano a utilizzare, il punto è che gli esseri umani vivono ancora in un sistema fondamentalmente patriarcale e che, in quanto tale, opprime il genere femminile “dalla culla alla tomba”. Benché i motivi delle donne per scioperare siano, quindi, potenzialmente tendenti all’infinito, la recente ondata di regressione mondiale nella condizione femminile impone di concentrarsi sugli obiettivi primari.

Contrastare la violenza di genere e potersi autodeterminare nelle scelte riproduttive sono i grandi snodi intorno a cui e da cui si dipana tutto il resto. Non a caso, sono al centro dell’appello per lo sciopero mondiale indetto dalle argentine lo scorso autunno, nel pieno dell’onda di proteste che ha, letteralmente, attraversato mezzo mondo. La miccia è stata lo sciopero delle donne polacche del 3 ottobre scorso, che è riuscito a fermare un disegno di legge che prevedeva – con il pieno sostegno della conferenza episcopale polacca – la criminalizzazione dell’aborto, persino di quelli spontanei. E dire che la legge sull’aborto polacca attualmente in vigore è già una delle più restrittive tra quelle europee: è previsto solo in caso di pericolo di vita per la madre, di gravissime malformazioni del feto, e di stupro. Poche settimane dopo, è stata la volta delle donne sud-coreane, scese in piazza diverse volte contro l’inasprimento delle pene per i dottori che praticano IVG (interruzione volontaria di gravidanza). Le argentine hanno, nello stesso periodo, reagito con scioperi e manifestazioni di massa allo stupro e all’omicidio disumani della sedicenne Lucia Perez. Donne di tutta l’America Latina hanno protestato, nei giorni immediatamente seguenti, contro l’alto numero di femminicidi e la violenza istituzionalizzata, utilizzando lo slogan “Ni una menos”, in italiano “Non una di meno”: il titolo della manifestazione romana del 26 novembre scorso.

Per la prima volta in dieci anni le donne del nostro Paese e i loro alleati hanno sfilato in più di centomila per le strade di Roma, anche in questo caso nel silenzio quasi totale dei media mainstream. Non va dimenticato che l’Italia è al 69° posto nella classifica mondiale della libertà di stampa, ma, per onestà intellettuale, va ammesso che anche molte persone LGBT+ ampiamente politicizzate (soprattutto uomini gay), che si sono conquistate la loro micro nicchia al sole dei social come influencer, sempre attente a qualsiasi violazione dei diritti LGBT+ in qualsiasi parte del mondo, sono rimaste colpevolmente in silenzio, senza dedicare alla manifestazione nemmeno una singola parola, forse non comprendendo in pieno il profondo legame tra omofobia, misoginia e patriarcato. Il percorso italiano è cominciato mesi fa, per organizzare la manifestazione di novembre, e ha avuto molte tappe, dai tavoli di discussioni che hanno seguito la manifestazione nostrana, a incontri, gruppi di lavoro, conferenze, concerti, cercando di coinvolgere il maggior numero di persone possibile.

Bologna ha ospitato, oltre all’assemblea nazionale che si terrà il mese prossimo, un tassello significativo della discussione sull’autodeterminazione riguardo al diritto a non riprodursi, con l’evento Uteri senza frontiere del dicembre scorso. Quella per i diritti (non) riproduttivi si configura, secondo l’opinione di chi scrive, come “la battaglia delle battaglie”. La riproduzione è stata a lungo un dovere dato per scontato, per divenire poi, con l’emergere dei movimenti per i diritti delle donne, una ambigua zona grigia tra il pubblico e il privato, dove lo stato tende a ingoiare quel po’ di libertà individuale faticosamente conquistata in oltre un secolo di lotte, ça va sans dire sempre in corso. Ebbene, se le donne non sono libere di autodeterminare il proprio destino biologico-sociale, cioè di decidere se, come e quando vogliono avere figli, se quindi le donne non hanno nemmeno la sovranità sul loro stesso corpo, certo che poi tenderanno a essere trattate come cittadini di serie B in tutti gli ambiti. E cittadini di seconda classe saranno non solo le donne, ma, a cascata, tutte le soggettività non conformi ai due generi tradizionalmente costruiti, uomini gay in testa, troppo simili alle donne per il canone maschilista vigente.

Le donne, storicamente meno partecipi alla vita pubblica, hanno dimostrato ovunque di essere cittadine consapevoli, pronte a lottare e a mobilitarsi in massa. Anche in Italia, in questo esatto momento, gruppi, associazioni e singole, nonostante le molte differenze e, ammettiamolo, una certa litigiosità politica che serpeggia nei mondi femministi, stanno lavorando insieme per lo sciopero dell’otto marzo. Chiunque voi siate, non per altruismo buonista ma in primis per aumentare egoisticamente il vostro livello di libertà personale: vi conviene aderire.

pubblicato sul numero 21 della Falla – gennaio 2017