Quando si parla di fecondazione assistita per soggettività single e lesbiche è inevitabile scontrarsi con barriere che rischiano di tramutare il sogno di mettere al mondo una nuova vita in un esercizio frustrante di salto agli ostacoli. Essere trans*, intersex e lesbica in Europa può complicare ancora di più le cose, relegando quel sogno nel buio e nell’invisibilità totale.
I dati riportano che più della metà dei Paesi Europei non concede la maternità alle coppie lesbiche e un terzo non lo permette alle donne cis single. Osare pronunciare la parola maternità e attribuirvi un significato sembra una prerogativa di una parte della popolazione eterosessuale cis che non ha la necessità di ricorrere al supporto di teniche di fecondazione di avanguardia.
Come attivista, penso che le soggettività della nostra comunità, e in particolare le lesbiche, dovrebbero avere il diritto di sperare e concretizzare il progetto di dar vita a una nuova vita riappropriandosi della parola maternità e genitorialità. Arrivarci tramite la procreazione assistita è un modo per farlo. Tuttavia i muri levati dagli Stati europei sono altissimi e scivolosi poiché i blocchi economici esistenti e le normative vigenti non permettono a tuttə di accedere alle pratiche mediche necessarie. Inoltre i sistemi sanitari coprono solo una piccola parte delle spese rendendo il percorso spesso insostenibile, per non parlare delle liste di attesa che possono risultare eccessivamente lunghe e restrittive.
La situazione, già assai difficile per le coppie di lesbiche o per le single, peggiora ulteriormente per le persone trans* o intersex. In Francia si è consentito l’accesso alla fecondazione assistita a queste ultime solo nel giugno del 2021; la Norvegia lo ha permesso alle donne cis single solo nel 2020, mentre in ben 24 Paesi, tra cui l’Italia, viene impedito l’accesso alla Pma alle coppie lesbiche. Come sottolinea Cianan Russell di Ilga Europe, l’organizzazione europea per i diritti delle persone gay, lesbiche, bisessuali, trans* e intersex, «I luoghi dove è più difficile per gli appartenenti alla comunità Lgbti+ trovare un lavoro, esprimere liberamente la propria preferenza sessuale, avere un riconoscimento legale di genere e sposarsi sono quelli dove è più complesso avere accesso alle tecniche di fecondazione assistita». Ungheria e Polonia sono gli Stati dove la situazione è peggiore, ma il problema è diffuso in tutta Europa.
Davanti a tante barriere, la soluzione che alcune persone si sono trovate a vivere sono fondamentalmente tre: concepire figli* con persone di fiducia pur non essendone attratte; cambiare Stato per accedere alla pratiche di fecondazione, affrontando però tutte le complicazioni legali al rientro; mascherare la propria identità, come le coppie di lesbiche che mentono dicendo che solo una delle due sta cercando un trattamento come donna single, nel caso sia permesso, o come le persone non binarie e gli uomini trans che devono mentire sulla propria identità di genere. Si tratta di soluzioni estreme e sicuramente non facili da intraprendere.
Documentandomi sulle difficoltà inerenti alla fecondazione assistita ho compreso che gli ostacoli non mancano nemmeno per le coppie eterosessuali che, oltre a non riuscire ad avere figli* autonomamente, potrebbero trovarsi davanti all’impossibilità economica di sopperire alle spese dei molteplici tentativi e dei cicli ormonali da affrontare.
Il lato economico della questione non è di poco conto. Secondo Calhaz-Jorge «il problema per la maggior parte della popolazione è la mancanza di finanziamenti pubblici. Anche nei Paesi in cui le coppie eterosessuali hanno accesso alla fecondazione assistita, dipende molto dal sostegno finanziario pubblico». C’è inoltre da precisare che non tutti i Paesi coprono le tecniche necessarie alla Pma. Irlanda e Svizzera non lo fanno, per esempio, e quelli che lo fanno a volte ne pagano solo una parte. La Germania, invece, non copre nello specifico la fecondazione in vitro per coppie lesbiche e donne single, mentre in Spagna, da pochi mesi, lo Stato copre tutte le spese per la fecondazione assistita di donne e persone trans*, a patto che abbiano meno di 40 anni.
In altri Paesi la riproduzione assistita finanziata pubblicamente ha delle barriere in più, come non superare un certo peso corporeo (in Serbia, Romania e alcune regioni spagnole), o non avere figli precedenti, come in Danimarca, Malta, Portogallo, Romania, Spagna, Svezia e Turchia.
Esiste poi anche una barriera ulteriore, ossia un numero ben preciso di tentativi che il Paese in cui si effettuano le pratiche copre nelle spese. Pochi Stati sono chiari sull’inseminazione o non stabiliscono limiti al numero di tentativi da coprire economicamente, mentre se lo fanno, di solito si tratta di sei o tre cicli.
Si può notare, invece, che sulla fecondazione in vitro c’è una precisione maggiore: quasi tutti i Paesi limitano il numero di tentativi finanziabili: Belgio, Slovenia e Italia finanziano sei tentativi; altri 15 Paesi finanziano tre tentativi; Romania, Moldavia e Kazakistan ne finanziano solo uno, se il tentativo non va a buon fine la prima volta e non si ha la possibilità economica di proseguire, ci si deve rinunciare definitivamente.
La speranza è quella di vedere presto una regolamentazione comune europea che garantisca la parità di accesso per tuttə alla fecondazione assistita e non vedere accantonati corpi non conformi e non in grado di procreare secondo una terribile concezione performativa. Le sensibilità dei vari Paesi sono caleidoscopiche e molteplici in materia, per questo sarebbe urgente trovare una soluzione e una sintesi, anche per chi, come le lesbiche italiane o le altre soggettività della comunità LGBTQI+, si recano all’estero e poi si trovano a dover affrontare al rientro notevoli difficoltà per il riconoscimento legale del* nascitur* da parte dell’altrə partner. Migrare per trovare umanità e apertura non risolve la questione al rientro, presso le buie e preistoriche caverne in cui i nostri diritti, anche in questo ambito, sono presi in ostaggio.
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