«Think before you speak. Read before you think.» Questa massima è della scrittrice e attrice statunitense Fran Lebowitz e dei buoni libri da leggere per pensare e parlare meglio sono per esempio quelli scritti dalla sociolinguista Vera Gheno: l’ultimo appena uscito si intitola Le ragioni del dubbio – L’arte di usare le parole, pubblicato da Einaudi. Abbiamo chiesto a Gheno di raccontarci da dove nasce questo nuovo progetto e perché ha scelto proprio le tre parole “dubbio”, “riflessione”, “silenzio” che campeggiano nell’illustrazione di copertina (dell’artista Anna Parini).
«Il progetto nasce dall’idea che il metodo DRS, che mi sono inventata tramite una riflessione pluriennale, con le tre parole chiave dubbio-riflessione-silenzio, possa essere utile per gestire la complessità cognitiva del presente per gli altri come lo è stato per me. Il libro è soprattutto una celebrazione del dubbio fecondo, quello che ti permette di riconoscere i limiti della tua conoscenza e, quindi, preparare il terreno per allargarla. In fondo, è il «sapere di non sapere» di socratica memoria. Le altre due parole chiave trovano posto in noi solo se prima abbiamo esercitato il dubbio. La riflessione può nascere solo dal dubbio rispetto alla liceità o correttezza di ciò che vogliamo dire o scrivere, aiutandoci così a capire se è o meno il caso di esternare un certo pensiero; il silenzio diventa possibile se ci poniamo il dubbio di avere davvero qualcosa di utile da aggiungere alla discussione. Pensiamo come sarebbero diversi i social se le persone non si improvvisassero tuttologhe!»
Per La Falla Gheno ha scritto dell’impiego dei femminili professionali, e di come superare il maschile sovraesteso in una lingua genderizzata come l’italiano, per esempio usando lo schwa. Da sociolinguista osserva i comportamenti linguistici delle persone e quindi la sua attenzione si sofferma non solo sulle parole, ma anche e soprattutto sulle ragioni che ci spingono a dire certe cose. La domanda che le abbiamo fatto è se sia vero anche il contrario, ovvero: può il linguaggio cambiare il nostro modo di pensare?
«Sicuramente il mio interesse principale sono le persone e il loro benessere, che passa anche dagli usi e costumi linguistici che mettono in atto o che altri mettono in atto nei loro confronti. Emil Cioran dice che non abitiamo una nazione, ma abitiamo una lingua. La nostra società, la pólis in senso ampio, è possibile solo grazie al lógos, alla capacità della parola, di cui siamo dotati, per quanto sappiamo, solo noi esseri umani, come ci ricorda Tullio De Mauro. Se la nostra è una società basata sulla parola, è ovvio che possedere le parole per descriversi è importante. E invece, pensiamo a tutte le soggettività che non hanno nemmeno un nome, nella nostra società attuale, e che stanno cercando e chiedendo una visibilità linguistica che, conseguentemente, aumenta anche la loro visibilità sociale. Una volta, tante diversità erano considerate solo in rapporto a una supposta normalità. E sì, io sono profondamente convinta che il linguaggio, pur non bastando da solo per risolvere i problemi legati alla convivenza delle differenze, come la definisce Fabrizio Acanfora (a tal proposito, si guardi a Paesi che hanno lingue prive di genere, ma che nonostante questo sono profondamente omo-lesbo-bi-transfobici), possa contribuire a cambiare la nostra mentalità, il nostro modo di pensare».
Veniamo al momento politico attuale: siamo alle ultime battute della campagna elettorale e Gheno ha condiviso il vademecum della Rete nazionale per il contrasto ai discorsi e ai fenomeni d’odio: le abbiamo domandato se ha delle idee su cosa si possa fare per disinnescare certe derive discriminatorie quando la propaganda politica si fa più accesa.
«Bella domanda. Secondo me, dipende dai risultati che si vogliono ottenere. Chi pensa a fomentare i propri “seguitori” e a ottenere like e reazioni, si distrae da quello che ritengo sia il significato profondo della politica. La politica dovrebbe essere dedicata alla cura della pólis, per l’appunto, al benessere delle persone che la compongono, non al mero successo personale… e quindi, chi si butta in politica dovrebbe sentire un grande senso di responsabilità anche nei confronti delle parole che impiega, perché queste possono aiutare le persone a inquadrare meglio determinati problemi che toccano la collettività, oppure drogarle, trasformandole in pupazzetti che si fanno manipolare.»
In varie occasioni pubbliche Gheno si è definita orgogliosamente alleata della comunità LGBTQ+, ci siamo chiestə se questo le ha mai creato dei problemi o viceversa se la sua presa di posizione ha aperto delle porte a incontri e collaborazioni inaspettati.
«Entrambe le cose. Ho conosciuto, in questa militanza, persone per me preziosissime, con le quali condivido una certa mentalità e determinati scopi (quello di una società migliore per tutte, tutti e tuttə, tanto per citare Marcia Tiburi), e mi becco anche molto odio, pur occupandomi prevalentemente di parole… Tra tutte le persone che mi mandano improperi, quelle che mi stupiscono di più sono coloro che si definiscono femministe (e magari anche di sinistra) e che manifestano odio nei confronti delle persone non-cisgender (anzi, perfino nei confronti del termine “cisgender”, perché “io non sono cis, sono normale”). Mi sento fortunata ad avere avuto il mio primo approccio tardivo con il femminismo arrivando direttamente a quello intersezionale e al transfemminismo. Per me, il femminismo non potrebbe essere altrimenti. E poi, è buffo che l’accanimento maggiore arrivi da chi, al contempo, afferma che i problemi della società sono ben altri, come se non ci si potesse occupare di più di un’istanza per volta. Beh, io sono una sociolinguista, quindi, come dire, mi occupo dell’argomento che conosco meglio, cioè le parole».
La scelta delle parole che usiamo dunque è una delle armi fondamentali per affrontare la complessità del presente, magari sperimentando anche il metodo «dubbio-riflessione-silenzio» proposto da Gheno nel suo ultimo libro, per non dimenticare la responsabilità che ognunə di noi ha in quanto parlante.
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