“NO!” Riccardo gridò di frustrazione, spalancando la piccola porta segreta. Matteo aveva ancora il sapore di rum corretto in bocca. Atlantide, Federica e sua madre erano scomparse, lui stava ritornando con i ricordi in casa sua, la notte della scoperta. I ricordi del passato riaffioravano inesorabili. Riccardo teneva in mano un cestino da bici, foderato con magliette colorate e decorato con calzini sgargianti. L’aveva trovato nel vano buio oltre la porta. Federica prese Matteo mentre le forze lo abbandonavano, lui se ne accorse appena. Aiutandolo a raggiungere un mucchio di malconci cuscini da divano gli accarezzò la fronte sudata. “Le nostre cose. Le cose che… abbiamo perso. La cover vecchia del mio iPhone, le bolle di sapone che aveva portato Anna, la spilla di Gender Bender, il metro avvolgibile del trasloco, tre paia di auricolari, la chiave del mio armadio, la candela del mio… del mio compleanno, matite dell’Ikea, la chiavetta USB, le pinzette, la tua tessera sanitaria, un Labello, il mio vecchio spazzolino e… l’anello.”. Matteo aveva totalmente perso il contatto con la realtà, sempre che una sola realtà esistesse davvero. Si sentiva bene, eppure rivivere quello che era successo quando avevano aperto la porta gli rubava il fiato. C’era qualcosa in quella scena di cui non si era accorto. Qualcosa d’importante, che cambiava ogni cosa.
La porta era stata richiusa e il pesante vaso di fiori rimesso al suo posto. Le cose ritrovate erano sparse sul tavolo, in mezzo a granelli di zucchero persi durante la colazione e briciole di tabacco smarrite dai pacchetti di sigarette. Matteo vide sé stesso seduto accanto a Federica. La sua voce era cancellata dal ricordo, come un video senza audio. Parlava a Riccardo, seduto di fronte a lui, assente. Qualcosa gli balenò alle spalle, fugace come un brivido. Senza voltarsi fece un passo all’indietro, poi un secondo. Quando si trovò appena oltre la soglia della cucina il suo sguardo incontrò quello di suo fratello. Il riflesso di Riccardo nello specchio del corridoio lo stava fissando, immobile. Un veloce cambio di prospettiva gli mostrò che quello in cucina, davanti a lui, era concentrato unicamente sull’anello, continuando a rigirarselo tra le dita. L’anello. L’Anello. Matteo si rigirò di scatto verso lo specchio. Il riflesso di Riccardo era scomparso. La sua testa cominciò a girare vorticosamente e quando riuscì ad aggrapparsi a uno stipite si accorse di aver appena varcato il portone di casa.
Riccardo gli passò accanto, molto vicino, poi lo superò uscendo in strada. Qualcosa, sulla mano che apriva il portone, aveva brillato alla luce del mattino. Matteo ne rimase interdetto, proprio come allora, ma ora ne conosceva il motivo. L’anello. La porta. La Porta. Guardò meglio suo fratello di spalle. Nell’uscire assomigliava a qualcun altro. Guardato con attenzione era molto più magro di Ricky, un po’ più alto ma con la stessa pettinatura. La porta si chiuse un attimo prima che quelle automatiche dell’ascensore si aprissero. In quell’attimo Matteo vide l’uomo girarsi un secondo verso il palazzo come se lo stesse vedendo per la prima volta dall’esterno. Non aveva una faccia, ma una maschera. Una grottesca pezzuola di pelle incolore, senza occhi e bocca, sottile come una pergamena. Quello non era Riccardo. Matteo non poteva averlo sempre scambiato per suo fratello. Ci aveva vissuto assieme, l’aveva accompagnato al Pride, aveva visto mille volte Antonio baciarlo dopo che si erano rimessi assieme. Aveva una maschera. Non poteva avere una maschera. Quella non è una maschera. Quella era la faccia di Riccardo, le sue lentiggini, il suo sorriso, la sua bella faccia. La faccia. La Faccia.
“NO!” Riccardo gridò di frustrazione, spalancando la piccola porta segreta. Illuminandone l’interno per un istante e poi vi si gettò dentro per estrarne il cestino da bici. Matteo aspettò di essere solo e guardò dentro alla porticina. L’ambiente assomigliava a una soffitta ma era più basso e stretto, come un’intercapedine. Sembravano esserci solo alcuni piccoli mucchietti di stracci divisi in pile disordinate, come quelle che si formano di sabato intorno alla lavatrice. Matteo vi strisciò accanto, sui gomiti, incontrando con la testa corde sulle quali erano appesi calzini perduti. Procedendo alla cieca urtò contro un barattolo che riversò decine di accendini sul pavimento. Ne prese uno all’istante e accese una luce. L’ambiente, qualche passo dopo l’entrata si faceva più alto. Le pareti senza intonaco erano attraversate da tubature a vista, vecchie e fasciate come arti di un moribondo. Era come un corridoio di servizio, largo non più di cinquanta centimetri ma tortuoso come un dedalo. Ovunque c’erano cataste di scatole, cesti, casse, porta minuterie da ferramenta, cassetti da armadio e una quantità incalcolabile di sacchetti di plastica stracolmi, appesi al soffitto o alle tubature. Ogni contenitore era pieno di oggetti perduti, pezzi insignificanti o forse fondamentali di altre vite passate. Qualcuno li aveva collezionati.
Matteo udì un respiro, proprio accanto a lui. Era ancora al sicuro ad Atlantide?
(16 – continua)
pubblicato sul numero 17 della Falla – luglio/agosto/settembre 2016
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