OMOSESSUALI PERBENE, O DELL’OMOFOBIA INTERIORIZZATA

di Nicola Riva

In un libro pubblicato nel 1990 con il titolo After the Ball (dopo il ballo) gli statunitensi Marshall Kirk e Hunter Madsen, entrambi omosessuali, convinti che lo stile di vita gay del tempo “desse agli eterosessuali una cattiva impressione degli omosessuali” essendo “privo di quei valori che, con molte buone ragioni, la società eterosessuale rispetta” proposero un codice di condotta per gli omosessuali articolato in tre sezioni: “regole per le relazioni con gli eterosessuali”, “regole per le relazioni con gli altri gay” e “regole per le relazioni con sé stessi”.

Ecco alcune delle regole previste dal codice: “non farò sesso in pubblico”, “non ci proverò con conoscenti eterosessuali o con estranei che potrebbero esserlo”, “se possibile, farò coming out con delicatezza”, “non parlerò di sesso gay in pubblico”, “se sono una travestita, declinerò inviti a indossare biancheria intima per Oprah o Donhaue”, “non tradirò il mio compagno con un altro”, “la smetterò di cercare il principe azzurro e opterò per qualcosa di realistico”, “smetterò di cercare di apparire diciottenne per sempre e mi comporterò come si addice alla mia età”, “non scuserò pratiche sessuali che ritengo dannose per gli individui o la comunità solo perché sono omosessuali” e così via.

Kirk e Madsen se la prendevano con la radicalità del movimento di liberazione omosessuale degli anni Sessanta e Settanta, caratterizzato dal rifiuto dei modelli tradizionali di relazioni affettive e sessuali. Essi sostenevano, tra l’altro, che la radicalità di quel movimento alimentava le paure della maggioranza degli/delle americani/e nei confronti dell’omosessualità, ostacolando il processo di integrazione sociale delle persone omosessuali. Sono passati venticinque anni da quanto Kirk e Madsen scrivevano e, mentre il “ballo” sembra ormai finito da tempo – purtroppo! – e della radicalità del movimento di liberazione omosessuale delle origini si è quasi perso il ricordo, la “buoncostume” omosessuale continua a reclutare nuovi agenti sempre pronti a bacchettare gli omosessuali che rifiutano di conformarsi agli standard della società borghese, accusandoli di danneggiare la causa omosessuale. Neanche li sfiora la possibilità che quella “causa” – quella della (dis-)integrazione nella società eterosessuale – possa non essere comune.

Le parole e le regole di Kirk e Madsen e dei loro seguaci (inconsapevoli) di ieri e di oggi trasudano una quantità enorme di omofobia interiorizzata. Un’omofobia che si manifesta innanzitutto come sessuofobia, con una significativa inversione di quel legame per cui in genere è l’omofobia a essere espressione di sessuofobia. Il problema – sia chiaro – non è che sempre più persone omosessuali aderiscono all’immaginario relazionale della maggioranza eterosessuale (e con il fanatismo tipico dei neoconvertiti!). Questo al limite è un loro problema. Il problema è che chi di noi si rifiuta di entrare nella gabbia (o di aspirare a entrarvi) si trova costantemente a dover difendere la propria libertà di sperimentare nuove forme di relazioni, in grado di coniugare legami affettivi e libertà sessuale, da chi, con argomenti non dissimili da quelli dei più ferventi censori dell’omosessualità, pretende di insegnarci come ci si debba comportare.

Il 17 maggio 1990 l’OMS depennò l’omosessualità dall’elenco delle malattie mentali incluso nell’International Classification of Diseases. Dal 2005, nell’anniversario di quella vittoria si festeggia la Giornata internazionale contro l’omofobia. È oggi quanto mai necessario soffermarsi a denunciare, oltre all’omofobia che colpisce la nostra comunità dall’esterno, le molte forme, subdole e sottili, che l’omofobia assume al suo interno. È tempo di denunciare il bigottismo che ormai dilaga tra di noi, accompagnato come sempre da un sacco di ipocrisia. È tempo di dire che nessun diritto merita di essere conquistato al prezzo della nostra libertà. Che un eguale trattamento legale ci è dovuto non in virtù della nostra buona condotta, ma in virtù della nostra eguale cittadinanza. Che non necessariamente ciò da cui siamo esclusi – e che ci è dovuto – è dotato di valore. Che la vita fuori dalla gabbia può essere più piacevole di quella al suo interno. Che il fatto di essere omosessuali non significa che i nostri obiettivi o le nostre priorità siano gli/le stessi/e. Che nessuna maggioranza omosessuale può imporre a una minoranza la “propria” ortodossia, tanto meno quando quella ortodossia è un prodotto d’importazione.

pubblicato sul numero 5 della Falla – maggio 2015