di Susanna Panini e Stefano Belacchi
Nel dramma di questo ennesimo disastro climatico abbiamo osservato – e alcunə di noi vissuto – la totale devastazione portata dalle acque: una piena fangosa che si è portata via case, ricordi, beni e vite. Come in ogni tragedia, le persone colpite hanno reagito, prima con i propri mezzi (chi li aveva), poi supportate dalla solidarietà spontanea ma, come in ogni tragedia, c’è chi aveva poco e ha perso tutto e chi ha potuto spostarsi, riparare rapidamente i danni, affidarsi alla propria personale rete di salvataggio di familiari e amicə. In questi inevitabili ed evidenti divari – intrinsecamente radicati nella società capitalista e patriarcale – si è innestata una solidarietà popolare che ha cercato, e sta ancora cercando, di schierarsi al fianco di chi per condizioni economiche o sociali non ha potuto contare su un capitale accumulato o su una rete di contatti personali.
Osservando la catastrofe climatica anche attraverso la lente dell’intersezionalità, si scorgono, all’ombra delle varie espressioni della solidarietà e dell’azione umana, i drammi collettivi e personali di migliaia di non umani.
In questa alluvione, gli abitanti selvatici dei territori allagati e gli animali domestici ospitati o imprigionati all’interno della società umana sono stati in gran parte ignorati.
Per i selvatici la non considerazione ha radici antiche, che risalgono alle cause primarie di questa alluvione. I loro luoghi abituali già da secoli sono stati loro strappati e modificati a beneficio degli umani e le loro popolazioni, ridotte, sono costrette a una convivenza forzata con l’essere umano. Convivenza in cui, più che vivere liberamente, sopravvivono in una costante fuga, necessaria per tenersi a distanza dalle infinite insidie del territorio antropizzato, dove anche le attività di base come spostarsi, accudire la prole o nutrirsi, si rivelano spesso trappole mortali. Improvvisamente accerchiatə dalle acque e impossibilitatə a trovare riparo in un territorio già di per sé ostile, in moltə non hanno avuto scampo.
Cani e gatti hanno spesso pagato il prezzo del loro status di animali. Lasciatə indietro durante le evacuazioni, in molti casi annegatə all’interno di spazi angusti nei quali erano rinchiusə, in altri intrappolatə all’interno di case semi allagate in attesa del ritorno della loro famiglia umana.
Sicuramente però, coloro che non hanno avuto alcuna possibilità sono gli animali da allevamento. Consideratə alla stregua di oggetti, sostituibili con gli indennizzi delle assicurazioni e dello Stato, sono stati in molti casi semplicemente ignoratə.
Ed è così che migliaia di maiali, galline, polli e chissà quantə altrə di cui non abbiamo avuto notizia, si sono trovatə a lottare contro una nuova minaccia. Non più solo lo stress, il sovraffollamento, l’aggressività reciproca, la privazione del sonno, lo stupro, la malattia e il destino finale per il quale sono statə allevatə, ma anche il rischio immediato dell’annegamento e dell’ipotermia.
Nella loro lotta senza fine che si perpetua all’interno di tutte le strutture di detenzione e sterminio si aggiungono nuovi elementi: acqua che sale, interruzione della ventilazione e della distribuzione del cibo, crolli delle strutture.
Tra le migliaia di morti capita che alcunə fortunatə si salvino. La salvezza giunge per resistenza spontanea, solidarietà intraspecifica, ma anche per aiuti insperati giunti dall’esterno. Ma è allora che il cinismo e il sadismo del sistema zootecnico assestano l’ultimo colpo al loro tragico destino. Sebbene scampati a crolli, allagamenti, mancanza di cibo, freddo e chissà quali altri pericoli, una volta al sicuro, grazie a una strenua resistenza e ai soccorsi, la loro vita è di nuovo minacciata. Possono scampare alle implacabili forze della natura, ma non alla banalità del male umano, con i suoi dispositivi di sfruttamento e consumo, più inesorabili di ogni catastrofe ambientale.
Questo accade perché l’umanità affronta la crisi climatica e le emergenze esclusivamente in un’ottica antropocentrica, specista e mercificatrice, per cui gli altri animali e l’ambiente sono considerati degni di importanza solo in virtù della propria utilità.
Praticamente ogni specie vivente sul nostro pianeta è tutelata in funzione delle necessità umane che dovrebbe e potrebbe soddisfare.
Basti pensare ai costanti mantra sulla tutela degli insetti impollinatori, considerati letteralmente essenziali per il prosperare della nostra esistenza su questo pianeta, o a quelli sugli ecosistemi oceanici.
Si indicono giornate mondiali per mettere in cima alle priorità collettive il clima, l’ambiente, le vite e la sostenibilità, ma sempre con lo stesso scopo e senza cambiare prospettiva: l’importante è tutelare il sistema di produzione capitalista.
Sistema per cui si può (e si deve) lucrare su tutto e su tuttə, ma soprattutto sui corpi che non contano: quelli animali, animalizzati, miliardi di soggettività senza nome e senza futuro, senza speranza e senza valore, se non quello delle proprie carni e dello spazio libero che lasciano da colonizzare quando vengono spazzati via.
Ed è così che si raccoglie l’appello e si solidarizza con l’allevatore romagnolo che chiede aiuto per salvare i suoi maiali – «almeno i cuccioli», illudendosi o addirittura convincendosi che il suo sia un atto caritatevole e di cura nei loro riguardi, invece che esclusivamente dettato da una logica di profitto e guadagno dai loro corpi macellabili e sacrificabili.
I maiali da salvare di cui sopra non sono altro che i costanti referenti assenti della nostra storia, allontanati dalla vista nei loro capannoni oscuri così da celarne il genocidio perpetuo, eppure così perfetti e così utili da sfruttare – nella loro vulnerabilità di creature assoggettate con le quali concedersi di empatizzare solo in occasioni eccezionali – per titoli strappalacrime post-disastro ambientale.
Siamo antispecistə radicali, transfemministə, militiamo in spazi politici come i rifugi antispecisti e sappiamo bene che esiste una stretta interconnessione tra le oppressioni tutte: gli altri animali, in particolare quelli definiti usualmente «da reddito», sono costantemente reificati, strategicamente resi oggetto.
D’altronde essi sono proprietà umana, beni di consumo, vite su cui avere il controllo, di cui poter disporre, beneficiare e dalle cui carni trarre potere.
Un potere squisitamente maschile e patriarcale, come sottolinea Carol J. Adams in Carne da Macello. La politica sessuale della carne, da trasmettere e condividere sin da piccolə attraverso un’educazione che renda desiderabile il frutto di violenze e soprusi che generano vite al solo scopo di spezzarle per consumarle.
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Susanna Panini
Susanna Panini è una delle volontarie che gestisce il rifugio antispecista Ippoasi, a Pisa. Fondato nel 2008, ad oggi accoglie 150 soggettività non umane, sottrate a sfruttamento e scampate a morte certa.
Stefano Belacchi
Ho iniziato a partecipare a lotte anticapitaliste e animaliste fin dall’adolescenza dapprima nell’ambito degli spazi occupati romagnoli poi collaborando alla fondazione di gruppi antispecisti e dell’associazione Essere Animali.Negli ultimi 15 anni mi sono occupato di fotografia animalista lavorando anche con altre realtà internazionali (Animal Equality, Equalia, Sea Shepherd Global, Dominion movement, Aussie Farms, We Animals Media).Ho fornito il materiale fotografico per il saggio della dott. Benedetta Piazzesi “Un incontro mancato – sul fotoreportage animalista” Mimesis 2017 e alcune mie foto sono incluse in “Hidden – Animals in the anthropocene” a cura di Jo-Anne Mc Arthur e Keith Wilson. Attualmente lavoro come fotografo freelance in ambito animalista.
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